I jihadisti saranno sicuramente incoraggiati dal ritiro degli americani dall’Afghanistan annunciato dal presidente Joe Biden. Dalla Casa Bianca al Pentagono, dalla Nato alle cancellerie europee si è sprecato un fiume di parole per mascherare la sconfitta o attribuire una qualche dignità al ritiro delle truppe alleate dall’Afghanistan annunciato dal presidente Biden. Del resto l’accordo firmato in Qatar dall’amministrazione Trump e dai talebani aveva l’obiettivo di offrire a Washington l’alibi per il ritiro, non certo di conseguire la stabilità dell’Afghanistan con improbabili in- tese tra governo e insorti jihadisti. I talebani hanno cessato di attaccare le truppe alleate ma hanno incrementato gli attacchi ai militari afghani e ai rappresentanti civili del governo di Kabul. Gli insorti hanno raggiunto un accordo con gli Stati Uniti ma non col governo afghano che la coalizione avrebbe dovuto proteggere e tutelare. L’Afghanistan viene abbandonato al suo destino e al ritorno dei talebani, che già controllano più o meno direttamente il 40% del Paese. Il fronte del Sahel intanto è diventato incandescente, come testimoniano i fatti di cronaca (l’uccisione di due giornalisti spagnoli e di un operatore umanitario in Burkina da parte di gruppi qaidisti) e l’evoluzione preoccupante della situazione in Ciad, attore cardine per la Francia e i Paesi dell’area nella missione militare contro il jihadismo. È qui che stanno arrivando gli italiani con una base nell’aeroporto di Niamey, in Niger, dove i nostri militari finora impegnati nell’addestramento delle forze locali dovrebbero presto estendere sia le attività che l’area di operazioni. In Mali si trova già una parte dei 200 italiani assegnati alla Task Force Takuba, unità multinazionale europea di forze speciali, posta sotto il comando dell’operazione francese Barkhane che schiera 5.100 soldati di Parigi contro i jihadisti nella regione.
Anche la Francia di Macron annaspa. I francesi, che hanno subito molte perdite, avevano trovato una soluzione per ridurre il loro contingente ricorrendo agli europei e soprattutto a 1.200 militari ciadiani inviati dal presidente Idriss Déby, ucciso per le ferite riportate, secondo la versione ufficiale, negli scontri con il Fronte dei ribelli che hanno le retrovie tra l’etnia gorane, i Tebu della Libia.
In realtà emergono informazioni sempre più preoccupanti sul sistema di sicurezza occidentale nel Sahel gestito dai francesi. Idriss Déby, autocrate implacabile, era uno degli attori principali della vasta scacchiera geopolitica dell’Africa subsaheliana. Negli anni Ottanta si era distinto per avere respinto nel Nord del Ciad le truppe di Gheddafi appoggiate dai sovietici. La retrovia del deserto libico del Fezzan e quella sudanese erano stati poi decisivi per la sua ascesa e la cacciata da N’Djamena nel ’90 del suo antico mentore, il presidente Hissene Habré. Fino ad arrivare al 2011 quando si era schierato con la Francia contro Gheddafi per poi oscillare in alleanze prima con le brigate filo-Misurata e poi con quelle che appoggiano il generale della Cirenaica Khalifa Haftar sostenuto an- che dalla Francia, oltre che da Russia, Egitto ed Emirati.
Déby seguiva il ruolino di marcia dei francesi che lo tenevano in piedi. E Parigi si preparava probabilmente a manovrarlo anche sul fronte della nuova guerra fredda libica tra Erdogan, padrone della Tripolitania, e la Cirenaica dove i mercenari russi sostengono Haftar.
La sua scomparsa ha aperto il vaso di Pandora del Sahel. Macron è vo- lato in Ciad per i suoi funerali al fianco del successore di Déby, il figlio Mahamat sostenuto da una giunta militare. Ma dopo aver dichiarato che Parigi non “permetterà a nessuno di minacciare il Ciad”, una presa di posizione interpretata come un appoggio alle nuove autorità, Ma- cron ha cambiato radicalmente tono. Parlando sulla scalinata dell’Eliseo al fianco del presidente della Repubblica Democratica del Congo Félix Tshisekedi, Macron ha condannato “con la più grande fermezza la re- pressione” dei manifestanti a N’Djamena, e soprattutto ha dichiarato di non essere favorevole al “piano di successione”, prendendo le distanze in questo modo dal figlio di Déby.
Perché questa ambiguità francese? Il Ciad è precipitato in una sorta di guerra civile non troppo strisciante e non ha nessuna intenzione in questo momento di mandare altri militari a combattere i jihadisti. I jihadisti, dai qaidisti ai Boko Haram nigeriani, se ne sono accorti e approfittano della situazione per imbastire nuove azioni militari. La Francia ondeggia e gli Stati Uniti di Biden intuiscono che “FranceAfrique” barcolla: quale migliore opportunità per “aiutare” Macron dopo avere lasciato l’Afghanistan? Intanto siamo arrivati anche noi italiani a dare una mano in Niger e Mali. Inutile nasconderselo: questa potrebbe essere una missione ad alto rischio.