Quasi un terzo dei fondi che godono dello status di art. 9 ai sensi della Sfdr dichiara una percentuale pari o inferiore al 30% di investimenti sostenibili
Gallo: “Sul mercato regna una notevole confusione su cosa si intenda per fondo sostenibile e su come evitare il rischio di greenwashing”
I fondi che ricadono sotto l’ombrello dell’articolo 9 della Sustainable finance disclosure regulation (Sfdr), la normativa europea sull’informativa di sostenibilità nel settore dei servizi finanziari, sono davvero “green”? Secondo MainStreet Partners, non proprio. O meglio, la maggior parte dei prodotti non è in grado di garantire la necessaria attenzione alla sostenibilità.
Si tratta della nuova edizione annuale dell’Esg Barometer, indagine condotta dal fund research team di MainStreet Partners su oltre 5.800 fondi ed etf e più di 64mila Isin individuali che coprono più di 300 asset manager per un patrimonio totale di 4.400 miliardi di euro. Facciamo innanzitutto chiarezza. È ormai opinione condivisa tra gli operatori che l’art. 9 abbracci quei prodotti finanziari che hanno un esplicito obiettivo sostenibile, mentre l’art. 8 quelli che promuovono – tra le altre caratteristiche – fattori ambientali e sociali attraverso l’integrazione dei parametri Esg nell’analisi finanziaria tradizionale.
Esaminando i recenti dati dello European Esg template (metodo standardizzato per lo scambio dei dati Esg, ndr), i ricercatori hanno evidenziato come più del 90% dei fondi classificati come art. 9 ai sensi della Sfdr non possedeva – o non rendeva noti – obiettivi di carattere ambientale. Inoltre, quasi un terzo vantava una percentuale pari o inferiore al 30% di investimenti sostenibili. Ciononostante, la quota di fondi classificati come art. 9 nell’universo dei prodotti analizzati da MainStreet Partners è rimasta costante negli ultimi due anni. Parallelamente, però, è stato rilevato uno spostamento dei fondi dallo status di art. 6 a quello di art. 8: se nel 2021 i prodotti classificati come art. 6 rappresentavano il 75%, nel 2022 sono scivolati infatti a quota 50%.
In questo scenario appare inoltre evidente come i fondi dei mercati emergenti risultino svantaggiati rispetto a quelli dei mercati sviluppati, ottenendo punteggi inferiori nei rating Esg nell’ordine del -10% nel caso dei prodotti che ricadono sotto l’ombrello degli artt. 8 e 9. “Ciò è dovuto certamente al fatto che le società incluse nei portafogli hanno ricevuto valutazioni Esg inferiori a quelle dei mercati più sviluppati”, osservano i ricercatori. “Tuttavia, la mancanza in generale di dati e informazioni provenienti dalle regioni dei mercati emergenti rende l’analisi Esg generalmente più difficile”. Una tendenza, aggiungono, che potrebbe non solo persistere ma anche aggravarsi qualora gli stringenti requisiti in materia di dati richiesti dalle autorità di vigilanza superino i miglioramenti apportati dalle società attive in queste regioni.
Secondo Simone Gallo, managing director di MainStreet Partners, i recenti interventi normativi europei in materia di investimenti sostenibili hanno di fatto innescato “una rivoluzione nel settore del wealth e asset management” al punto che le comunicazioni ambientali, sociali e di buona governance rappresentano oggi una delle priorità di consigli di amministrazione e dei comitati esecutivi. “Tuttavia, sul mercato regna una notevole confusione su cosa si intenda per fondo sostenibile e su come evitare il rischio di greenwashing in un’enorme offerta di nuovi prodotti commercializzati come Esg, impact o sostenibili”, avverte Gallo. Che ricorda infine come “un numero crescente di investitori in Europa e in Asia” richiedono o desiderano “rating Esg coerenti e di facile comprensione”.