Le ambizioni di grande potenza della Cina di Xi non possono prescindere, prima o dopo, dal controllo di Taiwan, afferma Alberto Forchielli a We Wealth, esponendo le imprese che dipendono da forniture cinesi alla minaccia delle sanzioni economiche occidentali
Per gli asset manager, che hanno avviato il 2023 con attese molto rialziste sulla Cina, i rischi non sono paragonabili a quelli delle imprese che inseriscono il Dragone nelle catene di fornitura, dice il co-fondatore di Mindful Capital Partners
In ogni caso, le promesse pro business del nuovo premier Li Qiang si sono presto scontrate con provvedimenti di segno opposto sulle società di consulenza e sui semiconduttori dell’americana Micron
“Il processo di disinvestimento dalla Cina è già in atto: se non ci fosse l’incognita di Taiwan, gli investimenti verso il Paese sarebbero molto più alti”. Alberto Forchielli, imprenditore e co-fondatore di Mindful Capital Partners, ha ribadito la tesi che ormai sostiene da diverso tempo: la Cina rivuole l’isola di Formosa, “con le buone o con le cattive”. L’idea che i cittadini Taiwan possano accettare il modello di annessione utilizzato a Hong Kong, tuttavia, è intollerabile dopo le repressioni inflitte all’ex colonia inglese nel recente passato. “Taiwan ha assaporato la democrazia, non ne può più fare a meno” e per difenderla “sono pronti a morire”.
Dopo l’intervento al Festival dell’Economia di Trento, Forchielli ci incontra nella hall dell’albergo, pesando le parole in un modo un po’ diverso rispetto al suo, colorito, personaggio televisivo. “Non c’è dubbio sul fatto che gli investimenti stranieri in manifattura cinese stanno rallentando”, dice l’imprenditore, anche se “bisogna aspettare ancora un paio d’anni per formulare un giudizio” definitivo su questo processo, per escludere l’impatto del covid.
Le relazioni internazionali sempre più tese con gli Stati Uniti e la minaccia che un passo ostile nella politica estera cinese possa far scattare sanzioni economiche su Pechino costituiscono un rischio per chi, oggi, vuole fare affari con la Cina. “Se avessi un’azienda, in questo momento, vorrei che fosse la meno Cina-dipendente possibile: con quello che si profila all’orizzonte”, ad esempio, aggiunge Forchielli, la possibilità di un blocco navale su Taiwan, “l’occidente reagirebbe con le sanzioni economiche”, e “le aziende esposte alla Cina sarebbero estremamente penalizzate”. Le conseguenze internazionali sulle imprese sarebbero paragonabili alle sanzioni sulla Russia “elevate al cubo”, dal momento che la Cina è molto più integrata della Russia nelle catene di fornitura.
In questa luce va interpretato il tentativo cinese di ridurre la centralità del dollaro negli scambi con i suoi partner più stretti, che potrebbe ridurre l’impatto delle eventuali sanzioni americane in uno scenario di crisi conclamata. Ma lo yuan, oggi, resta poco spendibile sul mercato internazionale, dice Forchielli e de-dollarizzare gli investimenti è molto più difficile rispetto al commercio.
Per gli asset manager rischi più bassi, ma ci sono
Nonostante l’ammonimento di George Soros sui rischi per chi investe in Cina, affrontato in una lettera nel settembre 2021, le società di gestione patrimoniale hanno continuato a guardare con interesse al mercato cinese anche dopo l’invasione russa dell’Ucraina, le ambiguità di Pechino e i tentativi di deterrenza americana sulle mire espansionistiche di Pechino su Taiwan. “Chi fa asset management difficilmente si fermerà di fronte a queste considerazioni”, dice Forchielli, interrogato sulle frecciate di Soros a BlackRock, “fare l’asset manager non significa esporsi” a livello imprenditoriale, “come chi crea una supply chain dipendente dalla Cina”. La scommessa sul Dragone, difficile non tracciare un collegamento, si sarebbe fatta un po’ più azzardata anche per i gestori di fondi.
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La deglobalizzazione si muove lentamente, ma c’è
Le mosse degli imprenditori esteri possono in qualche modo offrire un orientamento sulle attese degli affari. La deglobalizzazione di cui sempre più si parla da quando la Russia ha invaso l’Ucraina è già visibile? “E’ una parola che deve ancora trovare una concretezza, il commercio mondiale è rallentato e cresce a un ritmo inferiore a quello del Pil, è vero, ma in misura molto contenuta”, afferma Forchielli. Il processo di ripensamento delle catene di fornitura, infatti, avviene lentamente. Anche perché “le alternative sono poche – Messico, Vietnam, India – ma la Cina non ha solo un costo del lavoro basso, ma anche ottime infrastrutture, ottima struttura di commercio estero per cui non ci sono sostituti altamente competitivi e per investire in fornitori nuovi i tempi sono eterni”. Ma gli imprenditori che stanno pensando già nella logica del “friendshoring” ci sono, sia in Europa sia in America, assicura Forchielli: “Gli [imprenditori] americani quando acquisiscono dei prodotti vogliono essere sicuri che nella catena di fornitura non ci siano prodotti cinesi”.
La svolta pro business di Li Qiang? Non è partita bene
E dire che il nuovo premier cinese Li Qiang, entrato in carica lo scorso 11 marzo, si era presentato con un’agenda pro business che avrebbe dovuto spingere gli investimenti stranieri nel Paese scoraggiare il “disaccoppiamento” fra la Cina e le catene di fornitura delle aziende occidentali. “E’ vero, hanno detto queste cose, escono con dei proclami, ma poi si contraddicono il giorno dopo nei fatti”, dice Forchielli ricordando la stretta cinese sulle attività delle società di consulenza come Bain & Co e Mintz dello scorso aprile che “ha gelato gli investitori, che hanno bisogno di informazioni e numeri” e la più recente esclusione dei semiconduttori Micron. Se doveva essere un cambio di passo, “l’inizio non è stato dei più promettenti”.