Resteranno senza eredi ben 21 miliardi di euro, nel più grande passaggio generazionale della storia. È il dato più citato emerso dall’evento AIPB “Private Banking e Filantropia: creare valore per la collettività”.
Il private banking va riconfigurato in una prospettiva che va oltre la semplice gestione dei patrimoni e diventa leadership sociale e culturale (oltre che industriale) al servizio della ricchezza del paese. In questo contesto si inserisce il tema della filantropia, ambito nel quale le opportunità pe il pb sono ampie.
Filantropia, il banker come architetto del futuro
Le ricerche ci dicono che il cliente private pensa al suo futuro, anche in un‘ottica di medio-lungo, anche se non sempre questo pensiero si trasforma in azione e progettazione concreta. Il banker potrebbe ambire a diventare una sorta di architetto del futuro, in grado di convogliare progetti e risorse del cliente in una pipeline progettuale concreta Il pensiero di lungo periodo che il cliente elabora riguarda in molti casi anche la sua dipartita ed il post mortem. E si consolida in due forme principali, ovvero “come gestirò il passaggio del patrimonio ai miei eredi” e “cosa posso fare per esistere anche dopo la dipartita fisica” (o il dilemma del Faraone).
Ad oggi nessuno di questi due punti sembra pienamente risolto. In Italia il banale ricorso al testamento è riservato a una minoranza della popolazione (12%). Nel perimetro del Private Banking, la pratica testamentaria è più diffusa: “l’uno su dieci” diventa per fortuna “uno su due”: è ancora poco, ma il mondo del private appare già abbastanza ben strutturato per svolgere consulenza sul questo fronte. Riguardo al secondo punto, sembra invece ancora in fase di elaborazione del suo progetto di intervento.
Le ricerche condotte da AIPB in questi anni hanno evidenziato che quasi 9 clienti Private su 10 ammettono di aver pensato a come vorrebbero essere ricordati, a quale testimonianza lasciare di sé nel dopo-vita. Questo sentimento resta spesso legato alla dimensione intima del cliente e non sempre trova una realizzazione concreta e talvolta quando la trova, la realizzazione appare confusa, dove i mezzi (donazioni, lasciti, fondazioni) non sempre appaiono perfettamente integrati con i fini. E questo anche se oltre l’80% dei clienti private si sentono subissati di richieste a scopo filantropico. Allora, come gestire il processo?
I sei vettori di una filantropia strategica
Innanzitutto partendo non dai mezzi, ma dai fini del cliente stesso. Bisogna dunque iniziare dalla profilatura del cliente e del suo bisogno e sviluppare poi il progetto di consulenza su sei vettori, ognuno con polarità diverse. Le sei dimensioni sono: la necessità di capire quanto l’intenzione del cliente (filantropica in questo caso) sia dettata da un impulso (debba scaricarsi nel breve) o quanto invece debba lasciare una impronta nel tempo; quanto debba risolversi in un gesto o in un processo iterativo; quando riguardi il dare anziché il fare; quanto sia legata a un fatto intimo o quanto debba costruire riconoscimento sociale; quanto richieda una operazione individuale o collettiva; quanto sia opportuno che diventi una azione diretta o quanto sia utile che sia azione intermediata.
La sfida: diventare un problem solver tra generazioni
La filantropia va poi inserita in una gestione patrimoniale complessiva: una donazione o destinazione filantropica spesso viene vista dal banker come una potenziale riduzione degli AUM. Ma il pericolo maggiore in un processo successorio è essere disintermediato dalle componenti della famiglia che il banker conosce marginalmente e non ha – oggi – al centro della sua attenzione. La priorità per un banker che volesse diminuire questo rischio dunque sarebbe quella di riuscire a diventare il problem solver per soluzioni cross generazionali. Per questo banker “architetto del Faraone” diventano quindi indispensabili soft skill molto diverse da quelle canoniche.