Il regime della cosiddetta «participation exemption» (o «pex») previsto dall’art. 87 del Tuir consente, al ricorrere di determinate condizioni, di contrastare il fenomeno della doppia imposizione economica sui redditi delle società di capitali riconoscendo un’esenzione sulle plusvalenze patrimoniali da realizzo di partecipazioni in società ed enti commerciali, residenti e non residenti.
In particolare, la plusvalenza realizzata è esentata da imposizione nella misura del 95%, con una tassazione effettiva dell’1,2%, corrispondente all’aliquota Ires ordinaria (24%) applicata alla quota imponibile della plusvalenza (5%).
In base alla normativa interna, tuttavia, tale disposizione, riguardante la determinazione dei redditi di impresa, trova applicazione alle sole società ed enti commerciali residenti, ovvero alle stabili organizzazioni italiane di soggetti non residenti cui la partecipazione oggetto di cessione sia afferente, il cui reddito viene appunto qualificato complessivamente come reddito d’impresa a prescindere dalla fonte da cui provengono i singoli elementi che lo compongono, in virtù della cosiddetta vis attractiva riconosciuta dall’art. 81 del Tuir.
Ai fini della determinazione dei redditi prodotti in Italia da parte di soggetti non residenti privi di stabile organizzazione italiana, trovano invece applicazione le disposizioni del Tuir recanti la disciplina della tassazione delle persone fisiche. Per essi, dunque, le plusvalenze derivanti dalla cessione a titolo oneroso di azioni o quote di società italiane costituiscono un “reddito diverso” (o “capital gain”) ai sensi dell’art. 67 del Tuir e, laddove la convenzione contro le doppie imposizioni applicabile attribuisca potestà impositiva (anche) all’Italia, sono soggette a imposizione sostitutiva del 26%.
Quindi, quando la plusvalenza è effettivamente tassabile in Italia, si crea una disuguaglianza di trattamento tra le società straniere e quelle residenti nel nostro Paese.
Questo accade quando, in situazioni simili e con lo stesso tipo di reddito, le società straniere pagano un’imposta notevolmente più elevata a causa dell’inapplicabilità della pex.
È in tale contesto che si inserisce la sentenza in commento, con cui la Corte di Cassazione riconosce per la prima volta l’applicabilità del regime di esenzione anche alle plusvalenze realizzate dalle società comunitarie non residenti e prive di stabile organizzazione in Italia. Ciò in ragione della restrizione ingiustificata che il regime pex altrimenti avrebbe imposto alle società straniere, in contrasto con i principi fondamentali dell’Unione Europea relativi alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei capitali, come sanciti negli artt. 49 e 63 del Trattato di funzionamento dell’Unione europea (Tfue) che, come noto, assumono rilevanza anche in campo tributario.
I fatti oggetto della controversia
La pronuncia riguarda una controversia originatasi quando una società residente fiscalmente in Francia ha impugnato il mancato riscontro (cosiddetto silenzio-rifiuto) da parte delle autorità italiane a una sua richiesta di rimborso. Tale richiesta di rimborso era stata presentata in relazione all’Ires versata per l’anno 2013, relativamente a una plusvalenza derivante dalla cessione di una partecipazione “qualificata” in una società italiana.
Tale plusvalenza risultava imponibile anche in Italia ai sensi dell’art. 8, lett. b), del Protocollo alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Francia che, in deroga all’art. 13, paragrafo 4 della Convenzione stessa, attribuisce potestà impositiva concorrente ai due Paesi sui capital gain derivanti dall’alienazione di una partecipazione societaria «importante» (come, per esempio, quella che dà diritto, direttamente o indirettamente, ad almeno il 25% degli utili della società ceduta).
All’epoca dei fatti la tassazione era regolata dal combinato disposto degli artt. 152, comma 2, e 68, comma 3, del Tuir che, nella formulazione vigente ratione temporis, prevedevano il riconoscimento di una esenzione da imposizione nella misura del 50,28% della plusvalenza realizzata. In sintesi, per le società non residenti prive di stabile organizzazione italiana, il carico fiscale italiano sulla plusvalenza era pari al 13,673% della plusvalenza (il 27,5% del 49,72 %) contro l’1,375% gravante sulle società residenti (il 27,5% del 5%, in applicazione della pex).
La società francese lamentava dunque il contrasto del regime di participation exemption con la libertà di libertà di stabilimento e la libera circolazione dei capitali, per essere stata assoggettata a un trattamento fiscale deteriore rispetto a quello ordinariamente applicabile a un soggetto residente che, con riferimento alla medesima plusvalenza e ricorrendo le condizioni di applicazione della pex, sarebbe stato esentato da imposizione nella misura del 95 per cento.
I principi di diritto della Cassazione
La Corte di Cassazione, confermando le sentenze dei primi due gradi di merito, riconosce il diritto al rimborso del contribuente sancendo il principio di diritto in base al quale la mancata applicazione del regime pex alle non residenti (francesi nel caso oggetto di giudicato) costituisce una restrizione “ingiustificata” alle citate libertà fondamentali dell’Unione. Tale violazione, prosegue la Corte, è peraltro confermata dalla sorte della norma domestica, ora abrogata, che limitava il regime di esenzione da ritenuta dei dividendi alle sole società residenti in Italia e alle stabili organizzazioni italiane di società non residenti.
A seguito della decisione della Corte di Giustizia dell’Unione europea (Cgue) nella causa C-540/07 (Commissione contro Italia), infatti, l’Italia ha deciso di eliminare qualsiasi trattamento discriminatorio relativo all’applicazione della ritenuta alla fonte sui dividendi “in uscita”, estendendo l’esenzione prevista per i dividendi italiani ai soggetti comunitari non residenti attraverso l’introduzione del comma 3-ter all’articolo 27 del Dpr n. 600 del 1973.
Secondo la Suprema Corte, e contrariamente a quanto sostenuto dall’Agenzia delle entrate, la stessa logica alla base della citata decisione della Cgue in materia di dividendi troverebbe piena applicazione al regime pex, poiché entrambe mirano a evitare la doppia imposizione economica degli utili societari, consistente, come noto, nella imposizione della stessa grandezza economica prima a livello della società che ha prodotto gli utili e poi a livello del soggetto partecipante, residente o non residente, in sede di distribuzione degli utili (dividendi) o di cessione della partecipazione (plusvalenza).
Doppia imposizione che richiederebbe, pertanto, che entrambi i predetti soggetti (residente e non residente) vengano assoggettati a un regime impositivo equivalente, tanto sui dividendi percepiti, quanto sulla plusvalenza realizzata, pena una palese restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera circolazione dei capitali non ammessa dall’ordinamento comunitario.
In proposito, vale la pena ricordare che non tutte le restrizioni delle libertà fondamentali sono proibite dal diritto comunitario, ma solamente quelle che non siano al contempo sorrette da una causa idonea a giustificare il carattere discriminatorio della normativa domestica. A tal fine assumono rilevanza solamente quelle cause che configurino un motivo imperativo di interesse generale (cosiddetta «rule of reason»).
Guardando alla giurisprudenza comunitaria in materia, tali cause sono state sostanzialmente identificate nella necessità di tutelare la “coerenza del sistema fiscale interno”, di contrastare “l’evasione e l’elusione fiscale” ovvero di preservare “il potere impositivo tra gli Stati membri”.
Anche se la Cassazione non si è espressa specificamente su questo punto, sembra evidente che nessuna delle cause di giustificazione menzionate possa essere applicata nel caso in questione. L’estensione della participation exemption ai soggetti non residenti, infatti, non compromette la coerenza del sistema fiscale nazionale, ma, al contrario, lo rafforza in quanto garantisce il pieno raggiungimento degli obiettivi del regime di esenzione, ovvero l’eliminazione della tassazione multipla dei profitti societari.
Secondo la Cassazione, infine, ove siano previsti meccanismi di eliminazione della doppia imposizione su base convenzionale, l’assenza di discriminazione potrebbe rinvenirsi solo laddove l’applicazione della convenzione consenta l’effettivo recupero, da parte della società non residente, dell’imposta pagata in Italia sul provento da partecipazioni ivi realizzato.
Nel caso analizzato dai giudici, sebbene in base alla Convenzione tra Italia e Francia trovi applicazione il meccanismo del credito d’imposta previsto nello Stato di residenza dell’alienante (Francia) per le imposte pagate nello Stato della fonte (Italia), la società francese avrebbe potuto recuperare solo una parte dell’imposta pagata in Italia a causa dell’applicazione dell’analogo regime di participation exemption francese: l’imposta estera accreditabile, infatti, non avrebbe potuto in ogni caso “superare” l’ammontare dell’imposta dovuta in Francia sullo stesso reddito (secondo il meccanismo del credito d’imposta cosiddetto «ordinario»).
Le ricadute della pronuncia e i possibili sviluppi
La decisione della Corte di Cassazione rappresenta un punto di svolta in materia ed è destinata a generare conseguenze su più fronti.
L’equiparazione del trattamento tributario delle plusvalenze di fonte italiana realizzate da soggetti residenti nell’Ue a quello dei soggetti residenti in Italia richiede la modifica del testo unico da parte del legislatore nazionale, che potrebbe essere opportunamente realizzata attraverso i decreti attuativi della legge delega per la riforma fiscale che, sulla base dei principi e criteri direttivi ivi previsti, dovranno “garantire l’adeguamento del diritto tributario nazionale ai principi dell’ordinamento tributario e ai livelli di protezione dei diritti stabiliti dall’ordinamento dell’Unione europea, tenendo anche conto dell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea in materia tributaria” (cfr., art. 3, legge n. 111 del 9 agosto 2023).
Sebbene la sentenza in commento analizzi direttamente solo i casi comunitari, l’intervento normativo potrebbe garantire l’applicabilità del regime di participation exemption non solo per le società residenti in Stati europei, ma anche per quelle residenti al di fuori dei confini dell’Unione. Questo considerando l’importanza data dalla Cassazione sia alle norme sulla libertà di stabilimento che a quelle sulla libera circolazione dei capitali. È noto, infatti, come quest’ultime vietino le restrizioni ai movimenti di capitali non solo tra gli Stati membri dell’Unione, ma anche tra gli Stati membri e i Paesi terzi.
In questa prospettiva, l’ambito applicativo della sentenza appare più ampio di quanto potrebbe concludersi ad una prima analisi. Circoscrivere l’efficacia dei principi espressi dalla Cassazione alle sole fattispecie comunitarie, infatti, limiterebbe la portata della pronuncia alle sole plusvalenze di fonte italiana realizzate da società francesi, posto che tra tutte le Convenzioni stipulate dall’Italia con gli altri Stati membri solamente quella con la Francia riconosce all’Italia potestà impositiva concorrente sui capital gain da partecipazioni (condizione necessaria affinché possa ravvisarsi l’esistenza del trattamento fiscale discriminatorio censurato dalla Cassazione).
Al contrario, la possibilità di estendere, sulla scorta della violazione della libera circolazione dei capitali, i principi di diritto recati dalla sentenza alle società residenti in Stati non comunitari ne amplia non di poco il campo di applicazione: diverse, infatti, sono le Convenzioni contro le doppie imposizioni in vigore con Stati non comunitari (v., ad esempio, Brasile, Cina, Cipro, Corea del Sud, Egitto, India, Israele, Lituania, Pakistan, Turchia e Vietnam) che, analogamente a quella francese, accordano anche all’Italia potestà impositiva sulla fattispecie reddituale in commento.
L’approdo ermeneutico cui giungono i giudici di legittimità sembra peraltro già consolidarsi. Con la sentenza n. 23323 pubblicata il 1° agosto 2023, infatti, pronunciandosi su una questione sostanzialmente identica a quella in esame – coinvolgente sempre una società francese – la Corte di Cassazione conferma, con analoghe argomentazioni, la natura discriminatoria della normativa domestica in materia di pex ed il suo contrasto con le norme comunitarie sopra richiamate.
Sulla scorta di quanto precede, sul piano operativo si apre dunque la possibilità, per le società non residenti (comunitarie o extra-comunitarie) che abbiano subito tale trattamento discriminatorio in passato, di presentare all’amministrazione finanziaria, per i periodi d’imposta non ancora prescritti, apposite domande di rimborso facendo leva sui principi di diritto sanciti dalla Cassazione.
Per il futuro, invece, nelle more della modifica normativa auspicata, la strada più prudente è quella della tassazione “piena” del capital gain realizzato e della successiva richiesta di rimborso dell’eccedenza di imposta che non sarebbe stata assolta in caso di applicazione diretta della participation exemption, ferma restando la possibilità per il contribuente non residente di applicare ab origine il regime interno di esenzione.
(Articolo scritto in collaborazione con Damiano Di Vittorio – Gattai, Minoli, Partners)