Con la sentenza n. 3328/2022, la Corte d’appello di Milano ha chiarito che, perché l’ingratitudine sia causa di revocazione della donazione avente a oggetto partecipazioni sociali, il comportamento del donatario deve esteriorizzarsi attraverso un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza e di solidarietà che, secondo la coscienza comune, aperta ai mutamenti dei costumi sociali, dovrebbero invece improntarne l’atteggiamento.
La disciplina giuridica sulla donazione
La donazione è un contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte (donante) arricchisce l’altra (donatario), disponendo a favore di questa di un suo diritto o assumendo verso la stessa un’obbligazione.
Elementi essenziali della donazione sono l’arricchimento del donatario, cui corrisponde il depauperamento del donante (elemento oggettivo) e lo spirito di liberalità (elemento soggettivo).
Attraverso una donazione è possibile, tra gli altri, trasferire la proprietà o altro diritto reale sopra un bene, tra questi anche la proprietà di partecipazioni sociali. La donazione però può essere revocata dal donante nei casi di ingratitudine e di sopravvenienza di figli del donante.
Nel caso di revoca della donazione per ingratitudine, l’azione si prescrive in un anno dal momento in cui si viene a conoscenza del fatto da cui l’ingratitudine scaturisce.
Ai fini della revocabilità per ingratitudine della donazione, di cui all’art. 801 c.c., occorre ravvisare nel comportamento complessivo del soggetto nei confronti del quale è stata perfezionata la donazione, come ha avuto modo di pronunciarsi la Suprema Corte, “una mancanza di solidarietà e riconoscenza, nonché un malanimo tale da assurgere ad ingiuria” (Cass., 4 novembre 2011, n. 22936).
A seguito della revocazione della donazione, il donatario deve restituire i beni in natura, se questi esistono ancora, e i relativi frutti dal giorno della domanda. Se i beni sono stati alienati, il donatario è tenuto a restituirne il valore.
Il caso in esame
Nel caso di specie, il padre conveniva in giudizio i due figli per sentire dichiarare la revocazione per ingratitudine, ai sensi degli artt. 800 e 801 c.c., delle donazioni disposte in loro favore e aventi a oggetto, ciascuna, azioni di una società e altresì per ottenere la condanna dei medesimi alla restituzione delle predette azioni, oltre ai dividendi percepiti a far data della domanda. A sostegno della propria pretesa, l’attore – al tempo dei fatti in un dichiarato stato di “afasia” a causa di una grave malattia – deduceva il compimento da parte dei convenuti di una pluralità di atti, a suo dire, ingiuriosi nei suoi confronti.
Le considerazioni della Corte d’appello di Milano
La Corte d’appello di Milano innanzitutto ha ritenuto che la circostanza per cui i donatari abbiano tenuto una condotta non conforme alla volontà del donante – nella specie, l’aver disconosciuto un patto parasociale sottoscritto contestualmente all’atto di donazione, col quale si escludeva dalla gestione della società i donatari, figli del donante – non è sufficiente a configurare, in assenza di un manifesto sentimento di avversione e disistima, causa di revocazione per ingratitudine, sub specie di ingiuria grave, interpretata restrittivamente dalla giurisprudenza di legittimità come “la manifestazione esteriorizzata, ossia resa palese ai terzi, mediante il comportamento del donatario, di un durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante, contrastanti con il senso di riconoscenza e di solidarietà che, secondo la coscienza comune, aperta ai mutamenti dei costumi sociali, dovrebbero invece improntarne l’atteggiamento” (Cass., 5 novembre 2001, n. 13632).
Nel caso in esame, la Corte ritiene che la condotta tenuta nella specie dai donatari, per quanto sgradevole alla percezione del donante, resta giuridicamente irrilevante ai fini della revocazione. Non solo la riconoscenza verso il donante non può declinarsi in termini di pedissequa obbedienza alle indicazioni impartite da quest’ultimo, ove non condivise, ma soprattutto il donatario non può essere privato dell’esercizio dei diritti e delle facoltà che la legge gli attribuisce.
D’altronde, imporre al donatario, a pena di revocazione, un obbligo di astensione da qualunque condotta o esternazione antitetica rispetto alla volontà del donante, integrerebbe un intollerabile vincolo sulla sua libertà di autodeterminazione per il sol fatto di essere stato destinatario di un atto di liberalità, così snaturando l’istituto in questione che si caratterizza, proprio, dall’assenza di corrispettività.
Per le stesse ragioni, prosegue la Corte, non può assurgere a causa di revocazione della donazione ex art 801 c.c. la circostanza per cui i donatari abbiano promosso un procedimento per la nomina di un amministratore di sostegno per il fratello, pur consci della intenzione del padre, più volte manifestata in passato, di volersi occupare personalmente del figlio fragile. Anche tale condotta, ad avviso della Corte d’appello di Milano, risulta inidonea a integrare il concetto di ingratitudine nell’accezione declinata dalla consolidata giurisprudenza.
(Articolo scritto in collaborazione con Nicolò Pavan, dello Studio Righini)