Croce e delizia di ogni collezionista, la certificazione dell’autenticità di un’opera (o, come si dice in gergo, “l’autentica”) è l’architrave portante del mercato dell’arte. E non a torto, visto che il rischio di imbattersi in opere non autentiche (“non buone”, per usare un lessico molto diffuso tra gli addetti ai lavori) è tutt’altro che remoto.
Prima di procedere oltre, sgombriamo tuttavia il campo da un possibile equivoco: il mondo dell’arte non è una giungla, infestata da predatori.
Vero è che il mercato dell’arte è spesso opaco e la cautela, quindi, è d’obbligo. Ma come in molti altri settori, né più né meno. I falsi sono sempre esistiti. Più che di un numero crescente di falsi rispetto ad un tempo, parlerei di maggiore attenzione, oggi, ai falsi. Per un duplice motivo. Primo, perché attorno all’arte vi sono interessi economici diversi rispetto al passato, in quanto tempo addietro l’equazione “opera d’arte-forma d’investimento” non reggeva. Secondo, perché oggi le opere – proprio per le plusvalenze che possono generare – circolano di più rispetto al passato. Ed è evidente, quindi, che a più passaggi di mano conseguono maggiori controlli sull’autenticità.
Se “ai più” (e nella categoria includo, trasversalmente, tanto i collezionisti in erba quanto i conaisseur) l’autentica è concetto familiare, sono in verità pochi quelli che ne colgono l’esatto perimetro. Perché, per esempio, molti non fanno distinzione tra l’autentica del Maestro e un expertise o, ancora, un certificato di archiviazione. Cerchiamo, perciò, di fare ordine.
A tale proposito è utile ricordare che, da un punto di vista strettamente giuridico, solo l’artista ha il diritto di autenticare l’opera, ossia di fornire il dato “in termini di verità”.
Il principio è espresso anche in giurisprudenza, laddove è stato ormai metabolizzato l’assunto secondo cui “una volta che l’artista non sia in grado di autenticare l’opera d’arte, l’autenticità della stessa può essere oggetto esclusivamente di un parere e non di un accertamento in termini di verità, parere che è espressione del diritto alla libera manifestazione del pensiero”, tutelato dall’art. 32 della Costituzione (così, Tribunale Roma, Sez. XVII, sentenza n. 13461 del 26/06/2019).
“E difatti il mondo dell’arte conosce i cosiddetti expertise” prosegue la pronuncia, che aggiunge: “l’accertamento giudiziale non farebbe altro che interferire nella dialettica, tutta interna e propria al mondo dell’arte, relativa all’attribuibilità di alcune opere a determinati artisti e si tradurrebbe in un giudizio collegiale giudiziale di maggior convincimento di una perizia rispetto all’altra”.
Il passo che precede va tuttavia spiegato, perché, letto superficialmente, potrebbe ingenerare la convinzione che le perizie siano “intercambiabili” e che l’una o l’altra pari siano. Nulla di più errato! Proprio perché espressione di un giudizio di valore, la “forza” dell’expertise è strettamente correlata all’autorevolezza del soggetto che la rende. E’ il mercato, e non il giudice, che designa “lo specialista” dell’autore in questione: il più delle volte chi ha curato la stesura del catalogo generale dell’artista o l’ente che emette i certificati di archiviazione delle opere riconosciute autentiche dall’ente stesso.
Va rilevato, peraltro, che, sebbene il “diritto all’autenticazione” di un’opera d’arte non esista come diritto autonomamente tutelabile e suscettibile di accertamento con efficacia di giudicato (perché il puro apprezzamento delle caratteristiche di un’opera non è di pertinenza di un giudice), tuttavia l’accertamento della falsità di un’opera può essere effettuato in via incidentale (ossia quale accertamento pregiudiziale e senza efficacia di giudicato) al fine di tutelare in giudizio un diritto che si ritenga leso.
Detto altrimenti, ed esemplificando, non si può promuovere una causa solo per far dichiarare che un’opera è autentica, ma è data la possibilità di accertare l’autenticità (o, più spesso, la non autenticità) di un’opera se ciò è pregiudiziale alla statuizione per la quale la causa è stata introdotta: per esempio, per ottenere la risoluzione per inadempimento del contratto di compravendita che ha ad oggetto un’opera non autentica.
La documentazione che attesta l’autenticità di un’opera è ben più di “un pezzo di carta”: è il cardine della compravendita ed è anche oggetto di un preciso obbligo normativo a carico del venditore, che, in forza dell’art. 64 del Codice dei beni culturali e del paesaggio, è tenuto a consegnare all’acquirente l’attestazione circa l’autenticità dell’opera.
Un tanto basta per legge, e i collezionisti ciò richiedono: il più delle volte un expertise, passaporto d’autenticità e al tempo stesso conferma della bontà dell’acquisto.
In verità il tema è più complesso, perché l’expertise, come abbiamo già rilevato, altro non è se non un’opinione e, in quanto tale, può essere resa da chiunque, a torto o a ragione, sia ritenuto competente.
Ciò a dire, in altre parole, che l’expertise sconta un peccato originale, non emendabile: essa ha un’attendibilità che è necessariamente legata all’autorevolezza del soggetto che la rende. E l’autenticità dell’opera si risolve, perciò, in un giudizio necessariamente soggettivo, perché ancorato alla caratura scientifica dell’esperto di turno che lo rende.
Non è poco, dovendosi considerare che nell’ambito del mercato dell’arte ogni opera, oltre ad avere un intrinseco valore estetico, possiede una precisa valenza economica, che, per sua natura, non può prescindere da una “certificazione” della propria paternità artistica.
Che fare, allora? Bisognerebbe andare oltre: sapere osservare l’opera, anziché limitarsi a guardarla.
Osservarla recto, ma anche verso. Si scoprirebbero silenziosi dettagli che, oltre a conferire all’opera un plus rispetto a lavori simili, spesso ne sono anche un indice di autenticità: alludo a provenienze ed esposizioni, ma non solo.
I mercanti e i collezionisti più avveduti, del resto, lo sanno. E fermano l’attenzione su un’opera, per quanto possibile, autentica di per sé: valorizzando, a discapito di una dichiarazione di accreditamento, elementi – quali un cartiglio o un timbro – che valgono a creare una forma di attestazione di autenticità che definirei “autentica indiretta”, categoria sui generis, connotata da tutti gli indici che hanno il comune denominatore di ancorare il giudizio di autenticità di un’opera a criteri oggettivi e, come tali, svincolati dalla sensibilità del professionista chiamato a rendere l’expertise.
Ecco allora che in questa prospettiva assumono valore pubblicazioni in cui l’opera è riprodotta o timbri che svelano illustri provenienze o, ancora, etichette di gallerie prestigiose: dettagli – ma “dettagli” in verità non sono – che valgono non solo ad accrescere il valore di un’opera, ma anche a certificarne indirettamente l’autenticità.