Periodicamente, nell’ambito dei rapporti tra intermediario e consulente “fuori sede” sorge – “rectius”, viene regolarmente sollevato – il problema di chi sia il cliente, se del primo o del secondo.
Ora a sostegno della prima tesi si adduce la sentenza n. 13528 del 17 maggio 2023 della Corte di Cassazione, che si è espressa in tal senso e allora il mondo dei consulenti è insorto, affermando perentoriamente, per voce sia dei propri massimi esponenti sia dei legali, che una cosa è la titolarità giuridica, di spettanza dell’intermediario, altra quella commerciale, delconsulente.
Invece, la domanda è priva di senso (contrariamente a quel che si ricava liberamente da un noto aforisma di Oscar Wilde, secondo cui “Le domande non sono mai indiscrete, lo sono talvolta le risposte”, qui invece è proprio la domanda che va contestata radicalmente) e il dibattito che si sviluppa per trovare la risposta è senza sbocchi.
In via preliminare, è proprio la citata sentenza della Suprema Corte n. 13528/2023 a rivelarsi del tutto priva di conferenza.
Il caso in esame: un consulente che cambia intermediario
Essa riguarda il caso di in consulente che ha cambiato intermediario e pretendeva che il nuovo intermediario distribuisse un prodotto distribuito dal primo, in essere nel portafoglio dei clienti già assistiti dal consulente proprio presso il primo intermediario: premesso che è pacifico, in base alle norme sul diritto di agenzia, che i prodotti e i servizi siano di spettanza esclusiva dell’intermediario preponente, il problema era solo di fatto, vale a dire se il secondo intermediario avesse o no promesso al consulente, in sede di conclusione del contratto di agenzia, di inserire il prodotto in esame nel proprio portafoglio prodotti e servizi.
In caso affermativo, non vi sarebbe stato dubbio alcuno sulla responsabilità dell’uno nei confronti dell’altro per violazione di obblighi assunti e in ogni caso per lesione dei principi di buona fede e correttezza. Poiché la promessa non era stata provata nei gradi di merito, la reiezione delle domande del consulente si rivelava scontata.
Il riferimento della sentenza della Suprema Corte alla titolarità dell’intermediario sui clienti non è nient’altro che un “obiter dictum” (letteralmente “detto incidentalmente”, nella sostanza precisazione “irrilevante ai fini della decisione”).
Ciò premesso, quello in esame è un falso problema.
Per comprendere tale affermazione, apparentemente paradossale, è bene partire da considerazioni leggere, ma che ci si augura siano conferenti.
In un giallo di Agatha Christie, “Giorno dei morti”, il primo assassinio, di una certa Rosemary, viene compiuto mettendo del veleno – mortale – nel suo bicchiere a una cena di gala.
L’investigatore di turno – uno apparso per la prima e ultima volta, né Poirot, né Miss Marple – risolve il “rebus” – che nel frattempo ha visto anche un altro omicidio -, partendo dall’affrontare il nodo di cosa significhi “il bicchiere di Rosemary”.
Per gli altri beni, il significato è semplice, in quanto vi è un rapporto stabile tra persona e bene, di proprietà, di possesso o detenzione o comunque uso non isolato, o anche solo temporaneo.
Per il bicchiere, il tutto sfuma: è solo il bicchiere dove uno ha bevuto. Ebbene, in una stessa occasione basta un niente perché il significato evapori.
Nel caso del giallo menzionato, in una cena di gala, i commensali vanno tutti a ballare, la borsa di una signora cade, il cameriere la rimette al posto del vicino e così tutti slittano di una posizione, in modo che la povera Rosemary beve nel bicchiere che solo pochi minuti prima era di suo marito e così ingurgita il veleno a questi (che poi muore l’anno successivo, in altra cena di gala con gli identici commensali di quella precedente, ingurgitando il veleno presente nel suo bicchiere -che questa volta era quello giusto-) destinato.
Per i clienti il discorso è, per ragioni diverse – ma nella sostanza tali da rimandare a identica direttrice, consistente nel demistificare il significato di titolarità al di fuori del suo preciso e delimitato ambito -, lo stesso: essi non sono né dell’intermediario, né del consulente, sono di se stessi. La titolarità su una persona è del tutto privo di senso.
Né il discorso diventa diverso per la titolarità del rapporto in essere: esso è certamente in capo all’intermediario, ma nel solo senso (invero tautologico) che i diritti e gli obblighi di cui al relativo contratto spettano esclusivamente allo stesso intermediario.
Contrasti di interessi tra intermediario e consulente
Ebbene, i contrasti di interessi tra intermediario e consulente si rivelano affatto indipendenti da questa titolarità e sono del tutto indifferenti rispetto a essa.
Due sono i classici argomenti su cui il contrasto di interessi è aspro, con esito massiccio in sede giudiziario.
In primo luogo, vi è il caso del consulente che cambia intermediario e tenta – spesso riuscendovi – di portare con sé presso il nuovo tutta – quasi – la clientela già assistita presso il precedente.
Se manca un patto di non concorrenza con il primo intermediario (in caso di consulente-agente, il patto manca quasi sempre, visto che la normativa prevede un compenso per il patto a favore dell’agente molto corposo, mentre è spessissimo previsto per il dipendente, visto che la normativa consente compensi questa volta molto contenuti), il passaggio di clientela è lecito salvo che in presenza di concorrenza sleale, il che non si verifica per il solo passaggio di clientela ma richiede un’autonoma scorrettezza. Anche passaggi massivi sono consentiti, a meno che la volontà dei clienti non sia manipolata o frutto di inganno.
In sintesi, la titolarità del rapporto in capo all’intermediario è vincolante per il consulente fino a quando questi resta legato allo stesso intermediario.
Non lo è dopo. La sopravvivenza dell’efficacia giuridica del rapporto dopo il suo scioglimento è da escludere, salvo eventuali profili di scorrettezza e/o slealtà, come appena visto.
Cosa succede in caso di patto di non concorrenza?
In presenza di patto di non concorrenza, il passaggio non è ammesso – come detto, il problema si pone in pratica solo per il consulente-dipendente: la giurisprudenza si è finora rifiutata di dare valore alla volontà del cliente (per il quale il patto non è vincolante) di seguire il consulente nel nuovo intermediario. La ragione di tale orientamento è individuata nella circostanza che il consulente, essendo lui vincolato dal patto, non può venire incontro alla volontà del cliente. È una ragione infondata, in quanto così si limita la libertà del cliente che invece è sovrana.
Il patto può vincolare il comportamento del consulente solo nell’iniziativa di contatto con il cliente, non nella ricezione della volontà autonoma del cliente. Anche in termini intrinseci di logica giuridica, la ricezione è un qualcosa di passivo mentre la concorrenza è il comportamento attivo per eccellenza. Discorso diverso è se il contatto a iniziativa del cliente sia effettivo o no, ma ciò attiene al profilo probatorio, che si colloca su piano diverso rispetto a quello del contenuto sostanziale e di merito della norma.
Gravi disfunzioni di prodotti e servizi dell’intermediario che danneggiano i clienti
In secondo luogo, vi è il problema delle gravi disfunzioni dei prodotti e servizi dell’Intermediario che danneggino i clienti. Ci si pone il problema se il consulente possa avanzare la giusta causa del proprio recesso dall’intermediario ed eventualmente chiedere anche il risarcimento del danno da lui subito, danno di cui ovviamente vanno provati la sussistenza e il nesso di causalità con il comportamento dell’Intermediario.
Anche qui la titolarità del rapporto in capo all’Intermediario è del tutto ininfluente.
I diritti e i doveri del consulente
Il problema vero è se il consulente possa vantare o no diritti non sui clienti e sul rapporto con l’intermediario ma sul suo diritto di assistenza ai clienti, quale conferito dal contratto tra lui e l’intermediario, senza distinzione tra consulente agente e dipendente.
Poiché l’assistenza del consulente è un punto qualificante della normativa, che riserva l’attività a soggetti provvisti di rigorosi requisiti di onorabilità e di professionalità e sulla base di questi iscritti in apposito Albo (un consulente non iscritto nell’Albo ricade nell’abusivismo finanziario, il che configura gli estremi del reato), è ovvio che il diritto in questione sussiste.
Il consulente, così come ha l’obbligo di esercitare l’attività in modo legale, corretto e professionale, così ha il diritto a che la sua assistenza possa rispondere a tali requisiti, il che per antonomasia non si verifica in presenza di prodotti e servizi assolutamente o comunque gravemente non idonei.
A tale problema si collega quello ulteriore della sussistenza o no del diritto del consulente di sindacare la politica prodotti dell’intermediario ove dannosa per il cliente.
Premesso che la politica prodotti sussiste solo in capo agli intermediari, si ribadisce che tale conclusione – assolutamente non controvertibile – incontra un limite invalicabile nella lesione dell’interesse del cliente, per le ragioni appena riportate.
La posizione dei consulenti di ravvisare la loro titolarità sostanziale e commerciale del rapporto con il cliente, così come riportata all’avvio delle presenti note, è a ben vedere equivoca, in quanto sembra dare a essa un valore in grado di contrapporsi alla titolarità di diritto in capo all’Intermediario. Così si pretenderebbe che il consulente entri nel merito della politica prodotti, sindacandola anche quando non dannosa per i clienti. Così, ancora, il consulente si sovrapporrebbe all’intermediario, in una commistione di ruoli che altererebbe il quadro normativo, il quale – nitidamente – individua nel primo un collaboratore del secondo, sì estremamente qualificato, ma sempre collaboratore.
Non a caso, è previsto il divieto del consulente di operare per più di un Intermediario, a pena di radiazione dell’Albo.
Il punto vero è non la titolarità, solo giuridica (il che rileva sia formalmente sia sostanzialmente, senza distinzioni sofistiche), ma l’individuazione non tanto dei suoi limiti, quanto piuttosto del suo esatto ambito. Altrimenti, o si consentirebbe all’intermediario di invadere il ruolo di assistenza del consulente, oppure, in alternativa, si consentirebbe al consulente di invadere il ruolo dell’Intermediario: entrambi i risultati si pongono in contrasto insanabile con la normativa.
L’incentrarsi sul – falso – problema della titolarità si risolve in un’operazione di interpretazione giuridica non trasparente e non conferente: in breve, si ricade nella Scolastica.