Giudici, gatekeeper e cataloghi ragionati: una questione aperta

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Un’opera d’arte la cui autenticità sia dibattuta può essere coattivamente inserita nel catalogo ragionato di un artista? E un’opera danneggiata? A chi spetta l’ultima parola, da quali pratiche o consensi può arrivare un supporto alla soluzione dell’annosa faccenda?

Prologo

Una recente sentenza della Corte d’Appello di Milano ha prescritto a una fondazione d’artista di inserire nel catalogo generale delle opere dello stesso, edito dalla fondazione, un’opera di cui sia stata accertata giudizialmente l’autenticità. Il caso è inedito ed ha suscitato animate discussioni. Chi autentica un’opera deve rispondere della propria opinione, nel caso in cui la stessa causi al proprietario dell’opera un danno ingiusto? Da un lato, chi sostiene che quando le fondazioni d’artista negano l’autenticità di un’opera, incidano in modo rilevante sul mercato di riferimento dell’opera o, addirittura, sul diritto di proprietà precludendone la commerciabilità. Conseguentemente, le fondazioni d’artista dovrebbero rispondere in caso di pareri rivelatisi erronei. 

Dall’altro, si sostiene che la fondazione debba potersi esprimere liberamente, senza limitazioni o rischi di responsabilità. A sostegno di questa tesi si propongono principi condivisibili, almeno in astratto: la libertà di ricerca, di espressione della propria opinione e di stampa, garantite dall’articolo 21 della Costituzione. Pertanto, una fondazione d’artista deve sempre potersi esprimere liberamente senza timore di dover rispondere a causa delle proprie opinioni. Diversamente, le fondazioni potrebbero decidere di rinunciare all’attività di autenticazione e di archiviazione, pregiudicando lo studio e la ricerca sull’opera dell’artista, che le fondazioni hanno lo scopo di valorizzare.  In senso contrario, si oppone l’articolo 42 della Costituzione che riconosce e garantisce la proprietà privata: chi nega l’autenticità di un’opera deve fare i conti con tale norma ed assumere il rischio di una propria responsabilità in caso di giudizio ingiustificato.

 Nel caso in esame, la fondazione aveva riconosciuto che l’opera fosse autografa, ma che il danno riportato a seguito di un incidente e la sua connessione ad un telaio estraneo, ne compromettesse la riconducibilità alla mano dell’artista. La Corte milanese ha statuito che se l’autografia di un’opera è stata accertata dalla fondazione, tale opera “non può essere ignorata dall’archivio e nelle raccolte riportate nei cataloghi gestiti dalla Fondazione…. e deve essere inserita, se del caso, in apposita sezione dedicata a quelle opere la cui paternità ha costituito oggetto di valutazione in sede giurisdizionale”.

 Ma può un giudice condannare una fondazione a “inserire” un’opera in un catalogo ed in base a quale norma di legge? Ed inoltre, a prescindere dall’esistenza o meno di una norma, è opportuno che un giudice intervenga in una situazione così complessa come quella dell’inserimento di un’opera nell’archivio e catalogo di un artista?

Giuseppe Calabi

In Italia una domanda giudiziale non può esaurirsi nella richiesta di accertamento sull’autenticità. La stessa Corte d’Appello di Milano ha stabilito che ciò deve essere sempre strumentale all’accertamento di un diritto di cui si assuma la lesione e per cui si chieda tutela: ad esempio il giudice può accertare che un dipinto sia falso in una causa di risoluzione di un contratto di compravendita. In tal caso, il giudizio sull’autenticità serve al giudice per decidere se l’acquirente abbia o meno diritto di restituire il quadro a chi glielo abbia venduto, riavendone il prezzo, ed eventuale risarcimento. Viceversa, un giudizio limitato all’autenticità di un’opera sarebbe di scarsa utilità, in quanto al parere della fondazione si sostituirebbe quello dell’esperto (CTU) nominato dal giudice, senza che al proprietario ne derivi una “utilità aggiuntiva rispetto alla situazione in cui si trovava ante litem”. Non si può tuttavia negare che il proprietario che si veda “bocciare” un’opera subisca un danno. 

Vi sono moltissime situazioni in cui la fondazione ha valide ragioni per negare l’archiviazione di un’opera e la sua catalogazione. Tuttavia, la giurisprudenza italiana sembra orientarsi nel senso di richiedere alla fondazione di fornire una “congrua valutazione” a sostegno di un parere negativo sull’autenticità di un’opera, poiché tale parere esercita “un’influenza rilevante nel mercato di riferimento”, incidendo sul diritto di proprietà. Le fondazioni hanno una responsabilità sociale prima ancora che giuridica, in quanto assumono il ruolo di veri e propri gatekeeper del mercato dell’arte.

È interessante notare come la regolamentazione stia affrontando, anche se in contesti diversi, il ruolo e l’impatto sull’economia e sulla società dei gatekeeper. Ad esempio, il Regolamento (UE) 2022/1925 del Parlamento Europeo e del Consiglio noto come Digital Markets Act ha come obiettivo di disciplinare il ruolo dei soggetti che si occupano di gestire piattaforme e servizi strategici che collegano consumatori e aziende all’interno dei mercati digitali. L’articolo 3 definisce un’impresa gatekeeper se: a) ha un impatto significativo sul mercato interno; b) fornisce un servizio di piattaforma com punto di accesso (gateway) affinché gli utenti commerciali raggiungano quelli finali; c) detiene una posizione consolidata e duratura nell’ambito delle proprie attività, o è prevedibile che la acquisisca nel prossimo futuro. Non intendo suggerire una estensione analogica del Regolamento 2022/1925 al mercato dell’arte, anche se tale mercato sta rapidamente trasformandosi in un mercato sempre più digitale.

 Tuttavia, mutatis mutandis, le fondazioni non potrebbero essere considerate come gatekeeper del mercato dell’arte? In fondo, hanno un “impatto significativo” e forniscono un “punto d’accesso” importante affinché gli utenti commerciali (come gallerie, case d’asta) raggiungano gli utenti finali (collezionisti) e, spesso, detengono una “posizione consolidata e duratura nell’ambito delle proprie attività”. Chi scrive è incerto se questa riflessione sia il frutto di una suggestione o possa svilupparsi in un argomento sul ruolo delle fondazioni d’artista nello sviluppo del mercato dell’arte. 

Due le conclusioni: (a) è opportuno che il diniego di autenticità sia sorretto da una “congrua valutazione”, come incidentalmente rilevato dai giudici milanesi; (b) nessuna norma prevede che un giudice possa imporre ad una fondazione di inserire un’opera in un catalogo ragionato: nel nostro ordinamento obblighi di “facere” possono solo essere previsti da una legge o da un contratto. 

 

Sharon Hecker 

È spiacevole che discussioni stimolanti come queste debbano essere affidate a un giudice per determinare una soluzione del tipo “o l’una o l’altra”, la quale chiuderà la discussione limitando la libertà di espressione, lasciando tutti insoddisfatti del risultato. Sarebbero questioni da affidare all’esperienza e alle conoscenze degli storici dell’arte, autori dei cataloghi ragionati. Le fondazioni, invece di decidere da sole, potrebbero entrare in discussioni comuni più ampie. A tal fine, esistono due eccellenti associazioni: una è la Catalogue Raisonné Scholars Association (CRSA), che esiste dal 1993, affiliata alla College Art Association. L’altra è l’International Catalogue Raisonné Association (ICRA), che ho contribuito a fondare. Entrambe condividono informazioni preziose, utili per rispondere a domande difficili come quella recentemente posta al giudice.

Per scoprire quale fosse il consenso sull’inclusione di opere danneggiate nei cataloghi ragionati, ho posto la domanda ai miei colleghi membri del CRSA. La risposta è stata affermativa. Tutti includono opere danneggiate, così come opere distrutte dall’artista o danneggiate durante il trasporto. Nessuno di loro mette in dubbio l’autenticità delle opere danneggiate.

Perché le opere danneggiate dovrebbero essere incluse? Perché, anche se danneggiate, continuano a far parte della documentazione e dell’evoluzione dell’artista, e possono ancora fornire prove di periodi di fasi di lavoro. L’inclusione fornisce sempre una documentazione, e come tale è preziosa non solo per gli studiosi, ma anche per i collezionisti e il mercato dell’arte.

Se l’aspetto visivo dell’opera è cambiato a causa del danno, questo cambiamento viene descritto nel catalogo. Alcuni autori di cataloghi includono immagini di opere rotte che esistono oggi come frammenti, così come opere riparate, con l’annotazione delle riparazioni. Sono incluse anche le opere danneggiate o distrutte da incendi o da atti di guerra o terrorismo. I cataloghi includono dettagli sul tipo e sulla posizione del danno, oltre a restauri e persino nuove stampe 3D realizzate per sostituire delle parti danneggiate. Un’artista che ha espresso la sua opinione sembra essere d’accordo: alla nostra recente conferenza presso l’ICRA, la scultrice contemporanea Rachel Whiteread ha detto che desidera che tutte le sue opere distrutte fossero incluse nel suo prossimo catalogo ragionato. 

Questo porta alla domanda più ampia, che abbiamo affrontato l’anno scorso durante la conferenza annuale all’ICRA, sull’importanza di coinvolgere i conservatori e restauratori nei cataloghi ragionati. Sfortunatamente, i conservatori non sono spesso inclusi, né vengono fornite relazioni di conservazione sui metodi e le date di restauro. A volte questo accade perché gli editori ritengono queste informazioni troppo lunghe o estranee o si teme che siano pericolose per il valore di mercato delle opere. 

In definitiva, includere le opere danneggiate significa riconoscere che le opere d’arte non sono stabili come vorremmo che fossero. La recente mostra “Recycling Beauty”, presso la Fondazione Prada, ci mostra proprio questo, focalizzando l’attenzione sul momento in cui l’opera d’arte ha perso la sua condizione iniziale di perfezione e completezza per venire “riattivata” acquisendo nuova vita e significato, anche se non è più ciò che era inizialmente quando è stata realizzata. Accettare questa instabilità sembra essere una migliore impostazione per gli autori e gli utilizzatori di cataloghi ragionati.

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