Le 10 principali crisi finanziarie che ci hanno insegnato qualcosa

La storia economica è costellata di crolli finanziari e crisi di mercato. Studiandola, però, si possono trarre insegnamenti per evitare di incorrere negli stessi errori

La storia non è esente da crisi economico-finanziarie che, anzi, hanno aiutato le economie a muoversi con maggiore accortezza.
“Le crisi di mercato fanno parte della vita degli investitori” afferma Steve Watson, Gestore di portafoglio azionario di Capital Group. Numerose sono le crisi che si sono susseguite nel corso dell’ultimo secolo. Solo dal 1987 ad oggi se ne possono contare più di venti, e tutte che hanno impattato negativamente a livello economico. “Secondo il mio elenco” spiega Watson, “abbiamo uno di questi eventi ogni 18 mesi circa”.
Tra le crisi più importanti della storia, se ne possono contare una decina che hanno cambiato il corso degli eventi, da cui è possibile trarre lezioni preziose.

Le 10 principali crisi finanziarie dell’ultimo secolo

Prima tra tutte, la crisi del ’29, che portò gli Stati Uniti alla Grande Depressione.
Il boom economico scaturito dalla prima guerra mondiale favorì l’attività speculativa azionaria, creando una bolla che scoppiò nel 1929, riversandosi poi sui mercati mondiali.
La cosiddetta teoria del ‘Beggar my neighbour policy’, ovvero cercare di migliorare la tua situazione interna a spese degli altri paesi’, applicata tra il 1929 e 1933 da alcune delle maggiori economie, peggiorò la fase di ripresa. Ciò indusse alla creazione di organismi monetari ed economici di carattere internazionale, tra cui la sottoscrizione degli accordi di Bretton Woods e la nascita dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (Onu).

A seguire, la crisi inflazionistica del 1974. Durante gli anni ’70, la crisi politica tra Usa, Israele e mondo arabo portò quest’ultimo a ridurre progressivamente le esportazioni di petrolio verso l’occidente. Il risultato fu un progressivo aumento del prezzo del greggio, seguito poi da quello di commodity. L’inflazione arrivò a doppia cifra in gran parte del mondo occidentale; da essa dipesero i successivi rialzi dei tassi di interesse.
Tale crisi fu l’ultimo tassello di una serie di elementi che avevano sostenuto i miracoli economici successivi alla Seconda Guerra Mondiale, altrimenti noti come ‘trentennio glorioso’.

Ci fu poi la crisi finanziaria del 1987, conosciuta anche come crisi del Black Monday, il lunedì nero dei mercati: in un solo giorno (19 ottobre) i listini mondiali subirono una improvvisa discesa del valore dei titoli quotati. L’epicentro della crisi fu il mercato di Hong Kong, dove si dimezzarono le capitalizzazioni dei suoi indici. La crisi si propagò poi in tutto il resto del mondo, scatenando il panico tra i traders.
Quale fu la causa del tracollo? La verità è che questa domanda rimbalza da allora, non avendo mai trovato una causa universalmente accettata. Tra le ipotesi, l’azione del computer trading, che creò un flusso indefinito di stop-order in America e di stop-loss in Asia.

Importante anche la bolla speculativa giapponese scoppiata nel 1991: una rapida crescita economica permise alle imprese di investire in attività speculative nel mercato azionario e nel settore degli immobili, dove poi si sviluppò una bolla finanziaria partita proprio dal real estate.
Alle spalle della crisi, l’avvio di misure ampiamente accomodanti da parte delle banche, grazie a livelli di risparmio elevati ed elevata liquidità depositata, a sostegno di una economia in cui la domanda cresceva più dell’offerta. La mossa repentina di una banca centrale preoccupata dall’eccessiva concessione di credito (la Bank of Japan aumentò bruscamente i tassi di interesse nel tentativo di adottare una politica di bilancio più restrittiva) fece scoppiare la bolla, conducendo il Giappone verso il cosiddetto ‘decennio perduto’, caratterizzato da deflazione, recessione e stagnazione economica.
Il troppo credito stroppia, anche se alle volte l’economia sembra dimenticarselo.

Altra importante crisi, quella vissuta dal Sud Est asiatico del 1997, che prese piede nel momento in cui il governo thailandese decise di svalutare la propria moneta, il baht, con l’obiettivo di tornare a far gola ai mercati, a seguito di una serie di attacchi speculativi da parte di fondi di investimento internazionali. La Thailandia aveva da poco conosciuto gli effetti della liberalizzazione del mercato dei capitali sotto l’influenza di Fmi e del Tesoro americano, che determinò un incremento di flussi e scambi di capitale fino a un sesto del Pil. L’ulteriore azione del Fmi che cercò di contrastare le perdite valutarie e di capitali con un finanziamento al governo peggiorò il quadro di fiducia. Il crollo della moneta tailandese innescò fenomeni di contagio che coinvolsero rapidamente le economie limitrofe, note come ‘Tigri Asiatiche’ (Taiwan, Correa del Sud, Singapore e Hong Kong). A monte della speculazione finanziaria, l’importante livello di debito del settore privato (lato aziende e banche) provocò il deflusso di capitali esteri.
L’opinione che si diffuse ex post circa il perché le istituzioni internazionali lasciarono correre la crisi fu ch’esse non vedevano di buon occhio le ingerenze dei governi orientali, che tra il 1985 e il 1996 avevano avviato floridi sviluppi in contrasto con le politiche liberali occidentali.

E poi la celebre bolla delle dot.com a cavallo del nuovo millennio: l’euforia generale derivante dai concetti di sviluppo e progresso tecnologico, associati a un settore all’avanguardia come quello della new economy di fine anni ’90 inizio anni 2000, alimentò le aspettative degli investitori circa il fatto che i titoli del comparto potessero continuare a registrare aumenti del valore, a prescindere dalla consistenza dei tradizionali indicatori di redditività.
L’insegnamento della crisi dell’internet risulterà chiaro a fronte dello sviluppo tecnologico di fine anni ’10, caratterizzato da un importante rialzo delle quotazioni, supportate però dalla consistenza di utili e ricavi aziendali.

Pur in una unica voce, la crisi finanziaria americana del 2007-2008 va considerata almeno in due riprese: la prima, causata dallo scoppio della bolla sui mutui concessi dal sistema bancario sul settore immobiliare; la seconda, concatenata alla prima e culminata nel fallimento di Lehman Brothers, originatasi da una crisi di liquidità del settore bancario. Sulla spinta della crescita del settore immobiliare, le banche iniziarono a concedere finanziamenti per l’acquisto della casa a persone con meriti creditizi via via sempre più bassi (mutui subprime), avendo come garanzia l’alto valore del mercato delle abitazioni. Intanto, i mutui subprime venivano cartolarizzati e venduti alle società veicolo, così da spostare il rischio intrinseco dalle banche ai compratori. Nel 2006, con il progressivo aumento delle rate medie dei mutui, iniziarono le insolvenze. Il valore delle abitazioni cominciò a scendere rapidamente e con esso anche il valore degli strumenti finanziari. Le istituzioni finanziarie più coinvolte nell’erogazione dei mutui subprime registrarono pesanti perdite e i titoli cartolarizzati persero gran parte del loro valore, a seguito dei numerosi declassamenti; le società veicolo iniziarono a chiedere fondi alle banche, che però non riuscirono a reperirli (l’unica liquidità disponibile sul mercato veniva ceduta a tassi a breve ‘folli’). In poco tempo si sviluppò una crisi di liquidità, che si trasmise poi all’economia reale.
Il too big to fail non esisteva più.

A distanza di due anni dal fallimento di Lehman Brothers, la crisi dei debiti sovrani dell’Eurozona, originatasi a causa di Paesi che presentavano gravi difficoltà economiche e insostenibili livelli di debito pubblico, dovuto all’indebitamento accumulato a partire dagli anni ’90. A monte della crisi, la difficoltà di alcuni paesi di finanziare ulteriori livelli di deficit a fronte dei propri bilanci in rosso; si tratta di paesi poi denominati PIIGS, tra cui Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. La crescita dei deficit di bilancio e dei debiti sovrani allargò i differenziali di rendimento tra titoli di Stato e aumentò il rischio sui credit default swap (per lo più contro la Germania, nota come locomotrice d’Europa). Conseguente, l’ondata di declassamenti da parte delle principali agenzie internazionali.
La crisi del 2008, assieme a quella europea del 2010 portarono ad una fase di ricapitalizzazione del sistema bancario, scheletro e strumento di supporto all’economia.

Celebre e di recente memoria anche la crisi del Dragone nel 2015. Nel 2014, il mercato immobiliare cinese comincia a smorzarsi; i capitali interni ai confini iniziano a convergere verso i mercati azionari, anche a fronte della politica stringente anti corruzione attuata dal governo che impediva la fuoriuscita dal paese di ingenti capitali di dubbia provenienza. La salita del mercato alimentò nuova crescita, nonché l’afflusso alle borse di maggiori risparmi privati di giovani e famiglie. Il 12 giugno 2015, come da molti analisti atteso, iniziano le prese di profitto, tradottesi poi in un’ondata di vendite. Immediatamente successiva, ma già in ritardo, è arrivata l’azione delle autorità, che abbassarono i tassi di interesse e diramarono l’appello alle aziende statali di non vendere le proprie azioni.
La crisi ha accelerato lo sviluppo della regolamentazione cinese e l’apertura verso i. mercati internazionali.

Al decimo e ultimo posto, la crisi pandemica da Covid-19 del 2020: il virus, originato dalla Cina e propagatosi in tutto il mondo a inizio 2020, ha legato il concetto di crisi economica a quello di crisi sanitaria, registrando per la prima volta un allineamento di politiche monetarie e fiscali dalle cifre monstre nel tentativo di arginare il diffondersi dell’epidemia. I Paesi di tutto il mondo hanno dovuto chiudere le proprie economie (lockdown) per salvaguardare la salute pubblica, mentre nuova liquidità continuava ad essere inserita nel mercato, nel tentativo di offrire supporto ad un mercato tornato a fare propria la parola ‘incertezza’.

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