Sono molti gli investitori sorpresi della svolta profondamente protezionistica di Trump e dall’avvio di una guerra commerciale che secondo i tecnici potrebbe danneggiare tutti i Paesi. In realtà, non è la prima volta che i dazi sono al centro della scena, durante il periodo della Grande Depressione erano pane quotidiano.
Che le nuove tariffe, imposte e poi rimosse, per poi tornare di nuovo, siano il tentativo degli Stati Uniti di ridurre il deficit commerciale o siano il mezzo per costringere gli altri Paesi a ridurre le proprie misure protezionistiche, in entrambi casi il cambiamento è chiaro. I dazi rappresentano solo l’ultimo di una lunga lista di cambiamenti nell’ordine geopolitico mondiale.
Tariffe: negoziazione o piano di lungo termine
Le tariffe sono tasse sui beni importati da altri Paesi. Per capire cosa accadrà nei prossimi mesi, è prima importante capire l’obiettivo con cui il tycoon le ha ideate. Se i dazi nascono solo a fini negoziali, allora è improbabile permangano per periodi di tempo più lunghi. Al contrario, se si tratta solo di un passaggio in un processo più profondo di disaccoppiamento, allora potrebbero essere destinate a rimanere più a lungo. Quest’ultima ipotesi sarebbe giustificata dal deficit commerciale statunitense che si è fatto sentire ogni anno a partire dai primi anni ’70. Basti pensare che nel 2024 il gap ha raggiunto i 1.100miliardi di dollari. L’obiettivo dell’amministrazione Trump potrebbe insomma essere quello di raggiungere un rapporto più equilibrato con i partner commerciali.
Nel frattempo, mentre è complesso capire le direzioni che prenderà la politica economica statunitense, l’ambiguità causata dal cambiamento delle politiche commerciali sta già influenzando la fiducia delle imprese e dei consumatori, con potenziali conseguenze negative per l’economia e i mercati statunitensi.
Rimangono incerte anche le conseguenze per gli altri Paesi, “in particolare quelli che dipendono fortemente dagli Stati Uniti per gli scambi commerciali, come il Messico e il Canada, dove le esportazioni verso gli Stati Uniti rappresentano circa il 20-25% del Pil”, spiega Jared Franz, economista di Capital Group. In una situazione migliore, ma comunque con molti punti di domanda, si trovano le economie europee, infatti le loro esportazioni verso States rappresentano solo il 2%-3% del loro prodotto interno lordo.
Dazi: vecchio strumento, nuove minacce
Come anticipato, i dazi non sono una novità per il governo americano. Anche senza tornare a guardare al periodo della grande depressione, le amministrazioni più recenti hanno utilizzato le tariffe, con però una grande differenza. I dazi erano sviluppati sulla base di leggi, che quindi richiedevano un’analisi dettagliata, consentendo alle aziende e alle parti interessate di avere tutto il tempo necessario per capire come rispondere.
Il piano di Trump è semplice: noi vi facciamo pagare le stesse tariffe che voi fate pagare a noi.
Riequilibrando così le tariffe tra gli Stati Uniti e gli altri Paesi per renderle reciproche. Ma “una mossa di questo tipo – spiega Franz – distrugge 75 anni di politica commerciale multilaterale degli Stati Uniti e aggira le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio, il successore dell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio del 1947”. Questi discorsi sono subito arrivati in Europa, con il timore che secondo la definizione di reciprocità del tycoon, verranno applicate anche tariffe pari all’Iva, ovvero pari al 25%.
Dazi e inflazione vanno a braccetto?
Guardando al mercato e come questo ha reagito negli anni ai diversi dazi, non ci sono dubbi sul fatto che tra questi e l’inflazione ci sia un rapporto strettissimo. Anche in questo caso, ci sono due possibili scenari: nel caso di una tariffa unica, allora i prezzi aumenterebbero ma in misura modesta, senza effetti preoccupanti nel lungo termine; più preoccupante è invece lo scenario di una guerra commerciale, dove i dazi cambiano di anno in anno.
Un altro impatto delle tariffe è quello sul dollaro: l’aumento dei dazi porta generalmente a un rafforzamento del biglietto verde, poiché riduce la domanda di importazioni in valuta estera. Un dollaro forte potrebbe contribuire a compensare alcuni costi legati ai dazi per i consumatori, che di solito subiscono fino al 50% del peso delle tariffe.