Nell’attività di wealth planning è frequente – nella prospettiva di “anticipare” il futuro trasferimento mortis causa – il ricorso ad attribuzioni liberali, a fini tanto di ottimizzazione fiscale, quanto di stabilizzazione degli assetti familiari e di tutela del valore dei beni.
A “valle” di tali negozi vi possono poi essere ulteriori operazioni di riassetto patrimoniale: sembra quindi utile chiedersi se le attribuzioni liberali siano in ogni caso “granitiche” o possano eventualmente essere inficiate, e a quali condizioni (ferma restando l’assoggettabilità ad azione di collazione e/o riduzione delle destinazioni lesive dei diritti dei legittimari).
La donazione richiede, per il suo perfezionamento, l’accettazione dell’oblato: sino a che quest’ultima non intervenga, il donante potrà sempre revocare l’atto (a tale schema fa eccezione la donazione in riguardo di matrimonio, la quale si perfeziona senza necessità di accettazione, ma non produce effetto sino a che non segua il matrimonio).
Una volta perfezionatasi, la donazione – che, al pari di ogni contratto, può essere risolta concordemente tra le parti – può essere invalidata solamente in casi specificamente previsti dalla legge.
Può trattarsi di vizi formali, quali il mancato rispetto delle prescrizioni normative in merito alla forma dell’atto (atto pubblico, richiesto a pena di nullità ex art. 782 c.c.) o alla capacità dei contraenti (incapacità legale o naturale del donante o del donatario), così come per vizi del consenso (errore, violenza o dolo), conformemente alla disciplina generale dei contratti. Inoltre, la donazione può essere annullata quando il donante sia incorso in errore sul motivo, di fatto o di diritto, che l’ha indotto a donare, sempre che esso risulti dall’atto e sia l’unico che ha indotto il donante a compiere la liberalità: ciò concreta una deroga alla disciplina generale dei contratti, che normalmente non attribuisce rilievo alcuno al motivo (salvo che sia illecito, comune a entrambi i contraenti e determinante il loro consenso ex art. 1345 c.c.). Va comunque evidenziato che, in concreto, la prova della sussistenza effettiva di un errore sul motivo (che oltretutto dovrebbe avere evidenza documentale) non sarà affatto semplice (in uno dei rari precedenti giurisprudenziali che si sono occupati del tema – Cass. 20189/2005 – si è precisato che l’errore sul motivo è comunque irrilevante se riguarda non la realtà di fatto, ma la valutazione che dei sentimenti altrui ha fatto il donante, trattandosi di un motivo puramente soggettivo).
Infine, la donazione potrà essere nulla anche qualora il motivo sia illecito, purché esso risulti dall’atto e sia il solo che ha determinato il donante alla liberalità.
È in ogni caso opportuno ricordare che, ai sensi dell’art. 799 c.c., l’eventuale nullità della donazione non potrebbe essere fatta valere dagli eredi o dagli aventi causa del donante che, a conoscenza della causa della nullità hanno, dopo la morte di quest’ultimo, confermato la donazione o vi hanno dato volontaria esecuzione.
La disciplina codicistica della donazione prevede poi un’ulteriore fonte di potenziale “instabilità”, ovverosia la possibilità che l’attribuzione sia revocata, su istanza del donante o dei suoi eredi, qualora il donatario si sia reso colpevole di ingiuria grave verso il donante o abbia dolosamente arrecato grave pregiudizio al suo patrimonio, o gli abbia rifiutato indebitamente gli alimenti (art. 801 c.c., “revocazione per ingratitudine”).
Al di là dei “casi limite” previsti dall’art. 463 c.c., nella prassi il concetto di “grave ingiuria” si è prestato a interpretazioni piuttosto elastiche, non essendo coincidente con la fattispecie penalistica, e per tale intendendosi la manifestazione a terzi, da parte del donatario attraverso il proprio comportamento, di un “durevole sentimento di disistima delle qualità morali e di irrispettosità della dignità del donante”, a prescindere dalla legittimità di tale comportamento (si è così ritenuto ingiurioso e rilevante ai fini della revocazione, ad esempio, l’aver intimato al donante, in assenza di oggettiva giustificazione, il rilascio dell’immobile oggetto di donazione e l’aver agito nei suoi confronti, ovvero l’aver agito per ottenere l’interdizione giudiziale del donante; al contrario, si è spesso escluso che offese ed anche denunce penali rivelatesi poi infondate proposte nell’ambito di una situazione di conflittualità derivante dal deterioramento del rapporto coniugale non fossero rilevanti, dovendo comunque la valutazione essere svolta alla luce delle circostanze del caso concreto). L’azione è comunque soggetta a un termine di prescrizione molto breve (un anno dal giorno in cui il donante è venuto a conoscenza del fatto che consente la revocazione).
La donazione può poi essere revocata nel caso in cui il donante, successivamente alla donazione, abbia (o scopra di avere) un figlio o discendente, così come nel caso in cui il donante riconosca un figlio, sempre che si provi che al tempo della donazione il donante non aveva notizia dell’esistenza dello stesso (“revocazione per sopravvenienza di figli”).
È utile chiedersi quale sorte abbiano le c.d. “liberalità indirette”, visto che tale schema è frequentemente usato nelle attribuzioni a titolo gratuito in ambito familiare. Esse, se dal punto di vista dell’impugnazione per vizi genetici seguono la disciplina generale dei contratti (quindi: saranno impugnabili per difetto di capacità o vizi del consenso, mentre ad esse non saranno applicabili le disposizioni – previste per le sole donazioni dirette – relative all’impugnabilità per errore sul motivo o per motivo illecito), potranno, invece, essere soggette a revocazione per ingratitudine o sopravvenienza di figli (così come ad azione di riduzione), in forza dell’espresso richiamo operato dall’art. 809 c.c.
Una menzione particolare merita il patto di famiglia (artt. 768 bis e ss. c.c.), frequentemente utilizzato nella pianificazione del “passaggio generazionale” di entità societarie. Esso rimane impugnabile per incapacità e vizi del consenso; mentre non risulta applicabile la disciplina, propria delle donazioni, della revoca per ingratitudine e sopravvenienza di figli, così come l’impugnazione per errore sul motivo o per motivo illecito (salvo ricorrano i presupposti della previsione generale dell’art. 1345 c.c.).
Il patto di famiglia può tuttavia nascondere un’insidia: qualora in esso sia stato previsto il diritto di recesso (ex art. 768 septies n. 2 c.c.), in caso di esercizio di quest’ultimo l’intero impianto pianificatorio può venire posto nel nulla, con conseguenze potenzialmente molto rilevanti tanto sul piano civilistico quanto su quello fiscale.