Jamie Dimon sale in cima alla classifica dei banchieri statunitensi che vendono le loro azioni, dopo aver deciso di mantenerle per quasi due decenni
De Massis: “In un mondo sempre più volatile è chiaro che può essere letta come una mossa che gli consente di diversificare e sfruttare il periodo di incertezza attuale”
Jamie Dimon, amministratore delegato di JpMorgan Chase, si unisce a una sfilza di banchieri che stanno vendendo le loro azioni. Secondo una recente indagine del Financial Times, il titano di Wall Street venderà 1 milione di titoli JpMorgan il prossimo anno, per un valore di circa 140 milioni di dollari. Si tratterebbe della prima mossa di questo tipo dal suo ingresso nella banca d’investimento, che lo catapulterà tuttavia in cima alla classifica dei top banker statunitensi che hanno incassato le loro azioni da allora.
La decisione di Dimon di mantenere le sue azioni per quasi due decenni si rifà all’epoca in cui il suo primo mentore, Sandy Weill, istituì un “giuramento di sangue” che imponeva ai suoi dirigenti di non vendere le loro azioni fino a quando non avessero lasciato la società. La stessa JpMorgan ha sottolineato in passato il fatto che il ceo non avesse venduto “una sola azione” del colosso newyorkese. Diversamente, racconta il quotidiano economico-finanziario britannico, altri banchieri di alto livello dell’istituto si sono dimostrati nel tempo molto più disposti a vendere le loro azioni rispetto a Dimon. È il caso per esempio di Mary Erdoes, ceo della divisione asset & wealth management di JpMorgan Chase, che ha venduto 63 milioni di dollari di azioni, o di Daniel Pinto, a capo dell’investment banking, che ha incassato 53 milioni da quando Dimon ha assunto il comando all’inizio del 2006. E ancora Douglas Petno, ceo della divisione commercial banking che ha venduto 34 milioni di dollari di azioni, e la co-responsabile della divisione consumer banking Marianne Lake, che ha incassato 29 milioni.
Chi sono i banchieri che stanno vendendo le loro azioni
Parallelamente, nei 17 anni in cui Dimon si è rifiutato di vendere le sue azioni, altri ceo di banche rivali si sono mossi in quella direzione. James Gorman di Morgan Stanley ha venduto 78 milioni di dollari di azioni della banca, di cui quasi 48 milioni quest’anno. Ted Pick, che succederà a Gorman all’inizio del prossimo anno, ha a sua volta incassato 30 milioni mentre i suoi ex rivali per il posto di vertice Dan Simkowitz e Andy Saperstein vendevano rispettivamente 25 e 19 milioni di dollari di titoli. Per non dimenticare David Solomon, amministratore delegato di Goldman Sachs, che ha venduto quasi 22 milioni di dollari di azioni dal 2006; e infine John Waldron (presidente e direttore operativo di Goldman Sachs) con 20 milioni di dollari di azioni vendute nello stesso periodo e John Rogers (capo dello staff di Goldman Sachs fino alle sue dimissioni lo scorso agosto) con 34 milioni.
Cosa significa la mossa di Jamie Dimon per il mercato
“La mossa di Jamie Dimon non va a intaccare il suo potere, considerando che continuerà a detenere una quota azionaria preponderante”, spiega a We Wealth Alfredo De Massis, professore ordinario di imprenditorialità e family business presso Libera Università di Bolzano e IMD. “E in un mondo sempre più volatile è chiaro che può essere letta come una mossa che gli consente di diversificare e sfruttare il periodo di incertezza attuale. Ma mi sembra si stia prestando meno attenzione a un aspetto ancora più rilevante. Se prima l’abitudine era quella di un giuramento di sangue in base al quale ai top manager era vietato vendere azioni fino a quando non lasciavano l’azienda, ora questo trend si è interrotto. Da un lato può essere vero che l’obiettivo sia quello di sfruttare le opportunità in un contesto sempre più mutevole in cui c’è necessità di diversificazione, ma dall’altro lato darà un segnale importante al mercato. In qualche modo azioni di questo tipo potrebbero avere un effetto potenziale di ‘signaling’ nei confronti di alcuni stakeholder aziendali”.
Senza vincoli, continua tra l’altro De Massis, il rischio di comportamenti emulativi è elevato. Anche dall’altra parte dell’Oceano. “Non escludo che questa tendenza americana potrebbe influenzare anche i banchieri europei, nel momento in cui diventasse chiaro che gli effetti non sono deleteri. In Italia i top manager possono dover sottoscrivere delle clausole particolari nel loro contratto, specie se ragioniamo su banche private, ma in generale c’è abbastanza libertà su questo fronte. Vincolare in qualche misura le condotte di questi grossi banchieri nei processi di vendita delle loro azioni potrebbe essere una strada intelligente da percorrere”, suggerisce l’esperto.
“Dimon continua a credere nelle prospettive dell’azienda”
Intanto, JpMorgan ha dichiarato in una nota ufficiale che “Dimon continua a credere che le prospettive dell’azienda siano molto forti e che la sua partecipazione nella società rimarrà molto significativa”. Le ragioni della vendita, si legge, nascono dalla necessità di una “diversificazione finanziaria e pianificazione fiscale personale”. In altre parole, il ceo continuerà a possedere più azioni di qualsiasi altro dirigente. L’unico altro banchiere che si avvicina a detenere una quota così elevata della propria banca è David Viniar, ex direttore finanziario di Goldman che siede ancora nel board dell’istituto di credito. Se Dimon detiene infatti lo 0,3% delle azioni in circolazione di JpMorgan, Viniar ne detiene lo 0,28% (dopo aver venduto 75 milioni di dollari di azioni dal 2006).