In tale contesto, è evidente che l’efficienza e i vantaggi dell’istituto del trust possono essere condizionati anche dal relativo trattamento fiscale e in specie dall’applicabilità al trust dei trattati internazionali contro le doppie imposizioni e quindi dal riconoscimento dei connessi benefici, finalizzati ad impedire la sovrapposizione dei prelievi impositivi degli Stati contraenti sullo stesso presupposto reddituale. Si tratta, peraltro, di una tema non di facile soluzione, che da sempre impegna la dottrina internazionale e la giurisprudenza.
L’art. 3 del Modello Ocse – cui si conformano la maggior parte dei trattati bilaterali contro le doppie imposizioni – nell’individuare le “persone” alle quali si applicano le disposizioni convenzionali elenca le società, le persone fisiche e le associazioni di persone (any other body of persons), senza alcun richiamo ai trust. Adottando un’interpretazione letterale delle disposizioni dei trattati, si potrebbe sostenere l’estraneità del trust dall’ambito di applicazione delle norme pattizie. Questa interpretazione è stata peraltro utilizzata sovente dal fisco per negare i crediti d’imposta riconosciuti dalle convenzioni quale rimedio alla doppia imposizione dei redditi (ad esempio, dei dividendi transnazionali) e reclamati dai trustee (per conto del trust). Una simile impostazione, come evidente, rischia di duplicare il carico impositivo sul trust e rendere di fatto impraticabile – perché del tutto antieconomico sul piano fiscale – il ricorso all’istituto in un contesto internazionale.
È chiaro tuttavia che l’esegesi dei trattati non può essere ancorata al mero dato letterale: l’art. 3 del Modello (e dei trattati che ad esso si ispirano) deve essere considerato una norma a struttura aperta, in grado di adattarsi all’evolversi dei fenomeni giuridici, sociali ed economici e perciò capace di abbracciare anche istituti che, sebbene non ancora venuti ad esistenza al momento della stesura del trattato, sono tuttavia successivamente entrati a far parte dell’ordinamento e del tessuto economico-giuridico degli Stati contraenti. In particolare, secondo questo indirizzo interpretativo, il trust può essere ricompreso nell’ampia definizione di “body of persons” e, per questa via, accedere ai benefici previsti dalle convenzioni.
Del resto, lo stesso commentario al Modello Ocse – sebbene non abbia natura vincolante ma di mera soft law – suggerisce di interpretare estensivamente i concetti impiegati dal testo convenzionale, ivi inclusa la nozione di “persona”. Sul punto peraltro è di recente intervenuta la Cassazione che, con la sentenza n. 2617/2020, aderendo all’orientamento favorevole all’interpretazione estensiva delle categorie utilizzate dall’art. 3 del Modello Ocse, ha rilevato come l’individuazione dei soggetti destinatari delle disposizioni pattizie deve essere effettuata alla luce di un’interpretazione sistematica dei trattati, che tenga conto del contesto in cui esse devono trovare concreta attuazione e del rilievo assunto nell’ordinamento degli Stati contraenti da nuovi soggetti giuridici, senza che l’estensione del novero delle “persone” rilevanti a fini convenzionali debba necessariamente “passare” per una modifica del dettato degli accordi.
Altro tema da considerare è che la potenziale applicabilità dei trattati al trust dipende dall’ulteriore condizione che la “persona” sia “residente” e cioè sia, ai sensi dell’art.v4 del Modello di convenzione Ocse, sulla base delle norme interne di uno Stato “ivi assoggettata a tassazione in ragione del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga”. Nella ripartizione dei poteri impositivi tra Stato di residenza e Stato della fonte, infatti, l’individuazione dello Stato di residenza del contribuente risulta cruciale. Allo Stato della residenza infatti sono riconosciuti diritti impositivi pieni con il solo limite del dovere di garantire l’eliminazione della doppia imposizione derivante dai diritti impositivi riconosciuti allo Stato della fonte del reddito che sono invece limitati a fattispecie specifiche.
L’accesso dei trust ai trattati stipulati dall’Italia ha in passato sollevato una criticità ulteriore in relazione alla mancata tipizzazione dell’istituto nell’ordinamento interno. In effetti, il trust resta a tutt’oggi un soggetto giuridico non regolamentato da una disciplina organica in ambito privatistico e, anche nella materia tributaria, l’espresso riconoscimento della soggettività passiva del trust a livello normativo è avvenuta soltanto con la L. n. 296/2006, che ha incluso il trust tra i soggetti passivi dell’Ires menzionati dal Tuir.
D’altra parte, oggi, l’espressa inclusione del trust tra i soggetti passivi ai fini dell’imposta sul reddito delle società ha dissolto i dubbi circa la possibilità di considerare il trust quale autonomo soggetto passivo di imposta. Il trust, quindi, oltre a potersi considerare “assoggettato ad imposizione a motivo della sua residenza”, sembra anche soddisfare il requisito dell’essere una “persona” ai fini convenzionali, in ragione della sua equiparazione alle altre persone dotate di soggettività giuridica. L’applicabilità dei trattati stipulati dall’Italia ai trust dovrebbe dunque considerarsi pacifica nella maggior parte dei casi.
Tale conclusione fondata sulla circostanza che il trust sia incluso tra i soggetti passivi di imposta tuttavia viene messa in discussione quando, per le sue peculiari caratteristiche, il trust perde autonoma soggettività tributaria, ad esempio nel caso in cui esso sia revocabile. In tal caso, infatti, non producendosi effettivamente lo spossessamento dei beni da parte del disponente, il trust non può qualificarsi come autonomo soggetto passivo di imposta e i redditi che tali beni producono devono essere ricollegati al disponente. In tal caso, ai fini convenzionali, è indubbio che il trust non possa qualificarsi come “persona residente”.
In aggiunta a quanto finora osservato, va puntualizzato che la ricomprensione del trust tra le “persone residenti” ai sensi dell’art. 3 del Modello Ocse è un requisito necessario, ma di per sé non sufficiente per ammettere il trust al godimento di taluni benefici previsti dalle convenzioni. Ad esempio, le disposizioni in materia di dividendi, interessi e royalties esigono, per l’applicazione dei meccanismi convenzionali, una condizione ulteriore e, precisamente, che il soggetto percipiente i proventi rivesta la qualifica di “beneficiario effettivo” (beneficial owner). Ciò significa che il percipiente deve poter dimostrare di avere il potere di disporre autonomamente dei redditi incassati.
Ai fini della verifica della qualifica di beneficiario effettivo del trust, le caratteristiche dello specifico trust avranno un ruolo determinante nel definire se esso possa considerarsi o meno beneficiario del reddito. Se il riconoscimento dello stato di beneficiario effettivo è più facilmente attribuibile nei casi di trust discrezionale (posta l’autonomia e indipendenza del trustee rispetto al disponente e ai beneficiari), ovvero nel caso del trust che persegua uno scopo caritatevole e sia privo di beneficiari, le cose si complicano laddove la discrezionalità del trustee sia compressa dai diritti dei beneficiari.
Peraltro, ai fini dell’analisi, occorrerebbe distinguere i casi in cui l’Italia rappresenti lo Stato della fonte del reddito ovvero lo Stato di residenza del trust, ma non è questa la sede. In termini generali, l’Amministrazione finanziaria e la giurisprudenza italiana che hanno finora preso posizione sul tema (tra cui anche la citata Cassazione n. 2617/2020), hanno considerato dirimente il regime di “trasparenza” o “opacità” applicato al trust (che, come detto, dipende delle caratteristiche del trust e delle politiche di gestione e di distribuzione dei proventi sancite nell’atto istitutivo).
Il trust opaco è quello che non prevede l’individuazione di beneficiari che siano destinatari – in base ad un automatismo, senza che residui alcuna sfera di discrezionalità da parte del trustee nelle decisioni concernenti le erogazioni – dei flussi reddituali prodotti dal trust medesimo. Quando invece sono individuati, nell’atto istitutivo o anche successivamente, dei beneficiari titolati a ricevere i redditi del trust, questo si comporterà come una entità trasparente e i suoi redditi saranno immediatamente imputati, appunto per trasparenza ed indipendentemente dalla percezione, in capo ai beneficiari indicati.
In sostanza, quindi, laddove il trust sia trattato nell’ordinamento di istituzione come un’entità “trasparente”, nel senso che i redditi del trust sono imputati ai beneficiari (che possiedono un vero e proprio diritto, “vested right”, e non solo una semplice aspettativa, al percepimento dei proventi della gestione) saranno questi ultimi – e non il trust – gli intestatari dei vantaggi convenzionali; viceversa, nel caso di trust “opaco”, non potrà che essere il trust stesso, in quanto autonomo soggetto passivo ai fini fiscali, intitolato a richiedere l’applicazione delle convenzioni.
Il tema, tuttavia, è quanto mai aperto: alcuni autori ad esempio hanno sostenuto che nel caso di un cosiddetta discretionary trust in cui il trustee ha il potere di decidere liberamente se attribuire ai beneficiari i proventi della gestione o accumularli, sia quest’ultimo, e non già il beneficiario del trust o il trust stesso, il soggetto che si qualifica come “beneficial owner” a fini convenzionali. Tuttavia tale conclusione non è convincente: essendo il trustee titolare di mere funzioni gestorie a vantaggio dei beneficiari non sembra potersi ragionevolmente qualificare come beneficiario effettivo ai sensi delle convenzioni.
Quanto appena osservato è una approssimazione della realtà delle cose e delle regole fiscali domestiche e internazionali “in gioco”, che sono estremamente più complesse di quanto abbiamo potuto qui rappresentare. La prassi interna e internazionale ci dice peraltro che siamo ancora lontani dall’avere sul fenomeno del trust un quadro concettuale chiaro o basi solide per risolvere senza distorsioni le diverse fattispecie che si presentano agli interpreti. Il tema meriterebbe uno sforzo anche da parte dell’Ocse per declinare i principi utili a districarsi tra le disposizioni domestiche dei diversi Stati e conciliare quest’ultime con le disposizioni pattizie, tenendo conto del fatto che il trust è un istituto del tutto peculiare che, per le sue mutevoli caratteristiche, amplifica le difficoltà che già ordinariamente si devono fronteggiare in materia di applicazione delle convenzioni contro le doppie imposizioni.