In sostanza, una norma prevista per identificare sul piano giuridico e tassare il negozio effettivamente posto in essere è stata utilizzata come disposizione sostanzialmente “antielusiva”, senza tuttavia il rispetto del contraddittorio e di adeguate garanzie procedimentali a beneficio del contribuente (previste dalla disciplina anti-abuso del diritto oggi regolata con effetto generale dall’art. 10-bis della L. n. 212/2000). Negli ultimi anni si è arrivati addirittura a una “deriva” giurisprudenziale che – in nome di una presunta “equivalenza economica” tra possesso del bene di primo grado (l’asset) e di secondo grado (le partecipazioni) – è arrivata a porre in dubbio la natura civilistica e fiscale persino della semplice cessione di quote/azioni totalitaria (dunque persino in assenza di collegamento tra conferimento e cessione).
Molto opportunamente, quindi, il legislatore nella legge di bilancio per il 2018 aveva precisato che la riqualificazione può essere operata solo sulla base dell’effetto giuridico del singolo atto sottoposto a registrazione, senza che l’amministrazione possa invocare elementi extra-testuali, estranei all’atto stesso. Conferimento e cessione di partecipazioni vanno quindi esaminate separatamente, mentre l’operazione complessiva “plurifase” può semmai essere contestata sulla base della disciplina anti-abuso, qualora miri a conseguire un risparmio di imposta illecito, ma non può essere tout court riqualificata. Con la successiva legge di bilancio per il 2019 è stata altresì chiarita la portata retroattiva di tale intervento chiarificatore.
La Cassazione, tuttavia, avendo ravvisato in tale intervento una violazione degli art. 53 (principio di capacità contributiva) e 3 (principio di uguaglianza sostanziale) della Costituzione, sulla base di un non meglio precisato principio di prevalenza della sostanza sulla forma, aveva rimesso la questione alla Corte Costituzionale. In particolare, la tassazione dell’acquisizione di un asset secondo i giudici di Piazza Cavour sarebbe sempre espressiva della stessa capacità economica e non dovrebbe differire a seconda che ad essa si pervenga attraverso una cessione diretta ovvero mediante un conferimento e una successiva cessione di quote. La presenza di una disciplina anti-abuso, peraltro, secondo la Cassazione non renderebbe di per sé superflua una disciplina riqualificatoria basata sugli effetti degli atti sulla base del loro collegamento.
La Corte Costituzionale ha ritenuto infondata ogni questione di legittimità. Nel dettaglio, la Consulta ha osservato che il legislatore con la novella del 2018, attraverso un esercizio non arbitrario della propria discrezionalità, ha inteso ribadire la natura di “imposta d’atto” del registro, chiarendo che si tratta di un prelievo sugli effetti dell’atto presentato alla registrazione e non sulla sostanza economica dello schema negoziale posto in essere dal contribuente. Ne consegue che, nella liquidazione del tributo, non possono interferire valutazioni estranee al contenuto formale dell’atto, ed in particolar modo elementi extra-testuali o atti collegati privi di un nesso testuale con l’atto sottoposto a registrazione.
L’appello ai principi degli articoli 3 e 53 della Costituzione appare perciò ingiustificato, dal momento che si basa sul fallace presupposto che i fatti espressivi della capacità contributiva nell’imposta di registro debbano necessariamente ricercarsi nella causa concreta e negli effetti economici degli atti sottoposti a registrazione. Al contrario, il legislatore è libero di identificare il presupposto impositivo nei soli effetti giuridici emergenti dal tenore letterale dell’atto, e quindi è rispetto a quest’ultimo parametro che devono risultare soddisfatti i principi di capacità contributiva e di uguaglianza tributaria.
Tale aspetto rappresenta uno snodo cruciale della decisione della Consulta in quanto uno dei punti più criticabili dell’ordinanza di rimessione della Cassazione era appunto la ricostruzione “storica” dell’art. 20 (e dei suoi antecedenti nelle precedenti leggi sul registro) secondo cui gli effetti economici sarebbero stati sempre oggetto di necessaria verifica nella riqualificazione del negozio soggetto a registrazione. In realtà nulla di tutto ciò, men che meno un principio di prevalenza della sostanza sulla forma, è dato riscontrare nell’evoluzione della norma in oggetto e nella sua interpretazione prevalente.
In conclusione, la sentenza della Corte Costituzionale precisa che resta precluso l’ottenimento di vantaggi fiscali in maniera elusiva, e cioè attraverso operazioni prive di sostanza economica e artatamente concepite al fine principale o esclusivo di pervenire al risparmio d’imposta. Tuttavia, la norma che deve essere invocata dall’amministrazione per disconoscere i vantaggi fiscali indebiti è l’art. 10-bis dello Statuto del contribuente (L.212/2000) e non l’art. 20 sopra citato. In altri termini, l’amministrazione non può ricorrere alla disposizione del Tur per aggirare quelle garanzie a favore del contribuente che sono previste dall’art. 10-bis, come la prodromica richiesta di informazioni, il decorso di un periodo minimo prima dell’emissione dell’avviso di accertamento e l’onere della prova della natura indebita del vantaggio fiscale conseguito. La norma di cui all’art. 20 – sin dai tempi della sua originaria introduzione – non ha infatti funzione antielusiva, ma si propone soltanto di fornire indicazioni interpretative riguardo la natura giuridica dell’atto presentato alla registrazione.
Peraltro, la stessa Agenzia delle Entrate (a differenza della Corte di Cassazione) aveva già mostrato, nella risposta ad interpello n. 13 del 19 gennaio 2019, di aver assimilato il principio per cui il trattamento impositivo dello share deal – salvo l’eventuale sindacato antiabuso – non è di per sé illegittimo, riconoscendo che la tassazione in misura fissa nell’ambito dell’imposta di registro risponde ad esigenze connesse al diritto comunitario. Invero, è la stessa normativa unionale in materia di imposizione indiretta sulla raccolta di capitali (da ultimo regolata dalla direttiva 2008/7/Ce) a richiedere l’imposta in misura fissa, con la conseguenza che il rispetto dei principi di ragionevolezza, coerenza e uguaglianza tributaria nell’ambito dell’imposta di registro dovrebbe semmai comportare l’adeguamento della tassazione delle operazioni di asset deal a quella delle operazioni di share deal, e non viceversa: in altri termini, un livellamento verso il basso, con applicazione dell’imposta fissa in entrambe le fattispecie, e non già verso l’alto, come ipotizzato dalla Cassazione a danno del contribuente.
La pronuncia va indubbiamente salutata con estremo favore, in quanto restituisce chiarezza e certezza del diritto agli operatori e sembra ricacciare definitivamente nella storia (con buona pace della Corte di Cassazione) l’utilizzo illegittimo di una norma interpretativa dell’atto quale sindacato (sostanzialmente antielusivo) sulle operazioni. Sarebbe peraltro opportuno, per una questione di civiltà giuridica ed esigenze deflattive, che il fisco abbandoni spontaneamente (dopo aver annullato in autotutela la contestazione) tutti i contenziosi in essere aventi ad oggetto riqualificazioni in chiave antielusiva di operazioni plurifase fondate esclusivamente sull’art. 20, prima ancora che i giudici si pronuncino applicando la novella legislativa.