Non è insomma un problema di sola quantità, ma, soprattutto, di qualità: non basta il “cosa”, è fondamentale il “come”, specie quando si tratta di affrontare e gestire una realtà complessa, inclusa quella fiscale.
La proposta di riforma tributaria pare tenerne conto, ma non a sufficienza.
Introdurre la figura del giudice tributario assunto per concorso, dedicato a tempo pieno all’attività giudicante, così come la prova testimoniale (in forma scritta), ad esempio, va certamente nella direzione di una maggiore qualità (e, ovviamente, maggiore “produttività”, considerato che si abbandona il modello di lavoro “part-time”).
Per ottenere un giudice capace di padroneggiare una materia così tecnica come quella fiscale è però indispensabile, appunto, una profonda conoscenza della materia, che non può essere garantita da un concorso pubblico, ma va perseguita attraverso un’adeguata formazione.
Occorre insomma una scuola di formazione di giudici tributari – ispirata alla filosofia transalpina, se si vuole – che sia in grado di preparare tecnicamente una classe giudicante che, attualmente, sembra avere delle carenze al riguardo (come la classe patrocinante, del resto), a tutti i livelli.
Non solo: in un sistema (inevitabilmente) complesso, occorre sposare e curare un elevato grado di specializzazione: i professionisti del settore tributario si dedicano prevalentemente all’Iva, o alle imposte dirette, o ancora al transfer pricing, senza aver la pretesa di avere competenze approfondite su tutto lo scibile fiscale: perché i giudici tributari non dovrebbero fare altrettanto?
Non si tratta di “condannare” un giudice a occuparsi per sempre di Iva (amata da pochi), ma di istituire, così come avviene nei tribunali civili di maggiori dimensioni, delle sezioni specializzate per materia, dove i giudici hanno un certo grado di rotazione, ma in cui viene alimentato un patrimonio di conoscenze e precedenti giurisprudenziali coltivati in un ambito più ristretto e dedicato.
Il contenzioso tributario è un “settore cruciale per l’impatto che può avere sulla fiducia degli operatori economici, anche nella prospettiva degli investimenti esteri”: così statuisce, giustamente, il Pnrr; ma la fiducia, quando si tratta di giustizia, si nutre della credibilità dei giudici, la quale non si basa solo sulla loro efficienza, ma soprattutto sulla loro autorevolezza.
E l’autorevolezza, in campo fiscale (come in tanti altri), si acquisisce studiando; non bastano per questo i concorsi, ci vogliono le scuole: una scuola di formazione dei giudici tributari, appunto.
Per fortuna c’è ancora spazio per gli emendamenti – c’è da augurarsi che non siano spesi (o sprecati) solo per gestire il regime transitorio (sempre delicato), ma che siano un’occasione per rilanciare l’“economia della conoscenza” anche nel contenzioso tributario.