Questi vantaggi sono compresi appieno dagli Usa, che investono circa il 3% del Pil in R&S, rappresentando così il 30% della spesa a livello globale in R&S. Questi investimenti vengono effettuati soprattutto dai privati, senza trascurare tuttavia l’elevata spesa pubblica effettuata in primis dal governo federale. In particolare, avvalorando il ruolo della ricerca scientifica – che già nel 1945 veniva definita da Vannevar Bush, consigliere scientifico di Franklin Delano Roosevelt, “una frontiera senza fine” – è stata posta al centro della politica del presidente Joe Biden.
Dunque, in America, così come anche in Cina, si è compreso il ruolo essenziale che la ricerca scientifica diversificata riveste nella crescita economica e civile di una nazione, intensificando gli investimenti, soprattutto nel settore biotech, e sviluppando un sistema in cui le banche, anche d’affari, i fondi, nonché gli studi legali sono organizzati in tandem fra scienziati e finanzieri.
Differentemente, nel nostro Paese si registra una sorta di cronico superbo isolamento della ricerca e un generale disinteresse relativamente alla questione cruciale del finanziamento in R&S, che non ha rappresentato un tema politico all’ordine del giorno. Infatti, la strategia di Lisbona, che poneva tra gli obiettivi principali quello della spesa in R&S, sembra essere stata dimenticata dall’Italia, che si colloca sotto la media degli Stati membri, con un investimento pari solo all’1,25% del Pil totale.
Le ragioni di tale criticità sono imputabili alle misure di austerità attuate a seguito della crisi finanziaria e all’assenza di adeguati finanziamenti statali necessari in tale settore, caratterizzato da elevata incertezza e tempi lunghi di sviluppo. La riduzione della spesa pubblica colpisce in particolare le università e gli enti pubblici di ricerca, indebolendo altresì la loro capacità di attrarre finanziamenti dal settore privato.
Parimenti, è necessario supportare l’ecosistema di venture capital e della nascita di imprese innovative che mettano la ricerca al centro dello stesso business. Fortunatamente, anche se con un certo ritardo rispetto ai partner europei, ciò sta accadendo grazie a Cdp Venture Capital.
Infine, c’è un altro aspetto da investigare che riguarda il ruolo delle Università nel processo di gemmazione delle nuove imprese. Agevolare un dialogo (anche qui, in maniera non ideologica né tanto meno desueta) fra la finanza e le università avrebbe il pregio – come accaduto negli Stati Uniti d’America – di favorire quel fattore accelerante di sviluppo industriale, tecnologico e competitivo di cui il Paese ha bisogno. La finanza nelle Università e le Università nella finanza non possono più essere un tabù.
(Articolo scritto in collaborazione con Federica Albano, di Lca Studio Legale)