In questo momento, il mercato azionario sembra piuttosto caro, specialmente Oltreoceano. Fra le alternative che, in termini di rischio, si posizionano fra le azioni e le obbligazioni “sicure” ci sono i bond high yield. L’ipotesi di un rallentamento moderato dell’economia, che si è concretizzata nel corso degli ultimi mesi allontanando lo spettro della recessione, ha favorito solide performance per questo mercato – che soffre di più quando i default aumentano e l’economia entra in contrazione. “L’high yield è stata la prima asset class di rischio che abbiamo iniziato a sovrappesare in portafoglio all’inizio del 2023 e ci ha portato fin qui un ottimo compromesso tra contenimento della volatilità e performance”, ha raccontato a We Wealth l’ad e co-fondatore di ReVersal SIM, Lorenzo Mion. La società, che ha annunciato di recente il superamento dei 130 milioni di masse in gestione, è specializzata nella gestione di interessi sofisticati, tipici di una clientela dai patrimoni elevati. Per questo genere di portafogli, si prendono in considerazione classi di investimento che vanno oltre il classico dualismo fra azioni e bond ad alto rating.
Dottor Mion, partendo proprio dai bond high yield, quali rischi comporta finanziare aziende dai conti meno solidi?
Il debito ad alto rendimento va gestito molto bene per controllare il rischio di credito. Se però si svolge un’analisi attenta dell’indice di tutte le aziende nel contesto globale del mondo sviluppato, sotto la soglia investment grade, si nota come il merito di credito sia migliorato in modo importante nella media degli ultimi 20 anni. Ad esempio, l’incidenza del rating BB, il meno rischioso fra quelli al di sotto della soglia investment grade, è salita dal 43 al 46%. Anche se molti gestori vedono il debito ad alto rischio come una scommessa opportunistica, questi dati suggeriscono per noi un’importanza strategica.
L’high yield ha già reso molto bene nel 2023, la sua performance può continuare?
I numeri dimostrano che c’è ancora spazio per crescere, dalle nostre analisi e soprattutto anche quelle di Northern Trust [con cui Reversal ha un accordo di distribuzione in esclusiva per l’Italia Ndr.]. Dall’inizio dell’anno questo settore ha reso circa il 3%. Considerando l’ipotesi di un rallentamento moderato dell’economia, abbiamo anche iniziato ad aumentare le azioni in portafoglio da fine 2023, pur mantenendo l’esposizione ai bond high yield. Questo segmento obbligazionario tende a offrire il 60% del rendimento rispetto alle azioni, ma con un terzo della volatilità. Molti investitori che ci chiedono se valga la pena acquistare azioni con valutazioni così tirate, specialmente negli Stati Uniti, trovano nell’high yield un’ottima risposta.
Meglio esporsi ai bond high yield in Europa o in America?
Noi tendiamo a diversificare sulle diverse aree geografiche perché tendiamo a scegliere strumenti che sono principalmente indicizzati e quindi replicano l’andamento dell’intero mercato di riferimento, ci permettono di abbassare il costo e i rischi della singola esposizione: non crediamo nella gestione attiva super concentrata. Quello che facciamo è, invece, andare a scegliere degli strumenti che replicano molto bene il benchmark, in una maniera super liquida, e parcellizziamo completamente il rischio.
In Italia il tema obbligazionario è stato dominato finora dal Btp: voi avete sperimentato quest’ondata di richieste?
Non abbiamo registrato da parte dei nostri clienti un grande picco di richieste sul Btp. Un po’ perché il nostro cliente ha una cultura di mercato superiore, che spinge a privilegiare la parte rischiosa del portafoglio, piuttosto che l’atteggiamento da cassettista. Un po’ perché noi abbiamo la fortuna di avere accesso a una serie di strumenti a capitale garantito, assicurativi lussemburghesi, polizze di ramo I che continuano a offrire, almeno fino al primo semestre di quest’anno, rendimenti netti pari quasi al 5%. Sono strumenti di private insurance che non sono a disposizione delle altre banche reti (che hanno subito di più la concorrenza del Btp). Se si parla in generale di quanto il Btp sia o meno un’opportunità, onestamente si fa fatica a sconsigliarlo, se si fa un lavoro da consulente e non da promotore finanziario: è un titolo con un ottimo rapporto di rischio e rendimento, e beneficia di una tassazione non al 26%, ma al 12,5% come le nostre soluzioni di Ramo I.
Fra le componenti difensive dei portafogli più sofisticati vengono spesso inseriti i real asset, che storicamente erano frequentati dagli investitori istituzionali. Esiste veramente un motivo per il quale un individuo con risorse importanti da investire debba dedicarvi parte dei suoi risparmi?
Abbiamo attualmente tre classi di asset nel nostro portafoglio strategico: il real estate globale, le infrastrutture globali e le risorse naturali globali. Riteniamo che tutte e tre siano cruciali per la diversificazione del portafoglio e crediamo che abbiano ampiamente dimostrato il loro valore sia l’anno scorso sia a inizio 2024. Infrastrutture e risorse naturali hanno portato risultati, grazie alla loro assimilazione al mercato obbligazionario, mentre la parte immobiliare è effettivamente quella su cui, in questa fase, molti riflettono in termini più critici…
Nell’immobiliare commerciale Usa c’è una bolla pronta a scoppiare, come temono alcuni gestori?
Ad oggi non abbiamo evidenze che ci indichino quel tipo di problema. La nostra, comunque, è una esposizione globale. Sul real estate utilizziamo due strategie di diversificazione, sia nel settore immobiliare commerciale sia residenziale, quindi di fatto tendiamo a diversificare in maniera importante geograficamente e settorialmente.
Le infrastrutture sono tornate sotto i riflettori, anche grazie alle manovre di BlackRock sul settore. Come trattate voi quest’opportunità di investimento?
Inseriamo le infrastrutture in una logica di portafoglio, non per speculazione momentanea. La ragione è che sono un’ottima fonte di diversificazione: proteggono molto bene dall’inflazione e sono un ottimo generatore di reddito, perché hanno un comportamento molto simile a quello di un investimento obbligazionario classico. Di mese in mese come per ogni, ma di fatto è una asset class che è importante avere in portafoglio per avere un portafoglio solido e ben posizionato e diversificato.
Nel concreto, come si investe in infrastrutture?
In questo caso ci sono gestori attivi specializzati che hanno un ottimo storico di risultati. Quello delle infrastrutture, infatti, è un mercato con un livello di efficienza un po’ più basso rispetto all’azionario e all’obbligazionario e questo apre spazio a una gestione attiva di successo.
L’errore da non fare, però, è selezionare un grande numero gestori attivi perché poi le probabilità di battere la media di mercato diventano avverse. In questo mercato specifico noi ricorriamo sia alla gestione attiva sia a quella passiva, perché i dati mostrano che sulle infrastrutture scegliere il gestore giusto può aiutare ad estrarre maggiore valore. Ci sono fondi con un’esperienza storica che, in questo ambito, riescono a farlo. Ma bisogna sceglierne uno o due, da abbinare poi a uno strumento a gestione passiva.
Mi sembra che questo aumenti le responsabilità di chi seleziona e propone un fondo infrastrutture al cliente…
Sì. In questo settore il fai-da-te non è consigliabile. Non bisogna commettere l’errore di pensare che l’unica alternativa a un portafoglio inefficiente, con troppi fondi attivi che – dati alla mano – sottoperformano nel lungo periodo i loro benchmark di riferimento, sia investire con una manciata di Etf passivi. Secondo noi, è preferibile una consulenza a parcella o un family office, una struttura in grado di organizzare una solida strategia e ribilanciare periodicamente il portafoglio alla luce delle evoluzioni di mercato.