Un recente studio del Fmi si propone di descrivere i vantaggi e gli effetti positivi correlati all’introduzione di un’imposta minima per le grandi società
È necessario continuare a riflettere sulla proposta degli Usa di raggiungere un accordo per fissare una global minimum corporate tax sul reddito delle imprese
Del resto, è sempre più evidente lo scarto che intercorre tra i nuovi modelli di business delle più grandi corporations e gli – inattuali – sistemi fiscali, in cui le stesse imprese operano.
La globalizzazione e l’avvento delle nuove tecnologie, infatti, ha esacerbato le asimmetrie tra la disciplina fiscale che regola la tassazione delle società – ancora in larga parte imperniata su criteri legati alla presenza fisica sul territorio e sulla produzione di beni tangibili -, e le multinazionali.
Queste, soprattutto nell’ambito del digitale, pur senza violare alcuna norma, non solo producono beni immateriali che prescindono dalla localizzazione sul territorio ma, sfruttando le lacune dei sistemi tributari e la competitività fiscale tra gli Stati (race to the bottom), localizzano i propri redditi in Paesi a regime tributario privilegiato. Godendo, da un lato, di un trattamento fiscale favorevole e, dall’altro, erodendo la base imponibile presso il sistema fiscale domestico
In questo contesto, avverte il Fmi, un’aliquota minima di tassazione sui redditi di impresa, rappresenterebbe il primo passo verso una riforma delle regole sulla fiscalità internazionale.
Dai dati messi a disposizione dal Fmi, emerge che sono sempre più gli Stati che introducono a livello domestico la minimum corporate tax, al fine di prevenire l’erosione della base imponibile (dovuta al ricorso indiscriminato alle tax preferences) e garantirsi una soglia minima di gettito, per sostenere le finanze pubbliche.
In questi termini, la minimum corporate tax si presenta come una buona manovra per quegli ordinamenti che cercano di preservare le entrate, impedendo il trasferimento dei profitti verso paradisi fiscali.
La vera sfida, però, è affrancare dall’ambito locale l’applicazione della minimum corporate tax ed estenderla, con un accordo internazionale, a livello globale.
Il progetto proposto da Biden, però, ha suscitato forti contrasti. Per un verso, infatti, la proposta è invisa a quei Paesi che, fino ad ora, hanno adottato politiche fiscali tese ad attrarre le società, garantendo prelievi minimi sulla produzione di redditi e offrendo benefici fiscali particolarmente vantaggiosi; per altro verso, è sostenuta dai governi che hanno assistito, nel tempo, ad un dirottamento verso l’estero dei profitti generati da società nazionali, rinunciando ad entrate significative.
Certamente, poiché gli interessi in gioco sono molti, non è facile, tanto per gli Stati membri dell’Ue quanto per gli Usa, riuscire a livellare il campo di gioco in cui si muovono le società (level the playing field); ponendo in essere regole comuni per le imprese che siano idonee a disincentivare il dirottamento di profitti verso Paesi a fiscalità privilegiata e, al contempo, siano capaci ridurre il divario (anche competitivo) che esiste tra le società multinazionali e quelle nazionali.
E invero, benché siano ancora molti i nodi da sciogliere, la proposta Usa – che ha sollevato e continua a sollevare reazioni contrapposte -, è diffusamente considerata il segno di un passaggio epocale nell’ambito della fiscalità internazionale.