Le Nazioni Unite sono intervenute sul tema delle società estere controllate nel 1962, anno in cui gli Stati Uniti hanno introdotto norme Cfc nell’ordinamento fiscale interno. Successivamente altri paesi hanno adottato, con diverse modulazioni, misure per la prevenzione degli abusi da strutture Cfc. Tra i paesi più virtuosi in ordine cronologico di adozione si segnalano Germania (1972), Canada (1976), Giappone (1978), Francia (1980), Nuova Zelanda (1988).
Tra gli stati europei che hanno di recente adottato Cfc rule per lo più a seguito dell’approvazione della direttiva europea 2015/1164/Ue (direttiva Atad 1) che ha obbligato ciascun paese membro a introdurre la disciplina sulle Cfc nel proprio ordinamento interno, Belgio (2017), Romania (2018), Austria, Irlanda, Cipro, Lussemburgo, Bulgaria, Croazia, Malta, Olanda e Repubblica Ceca (2019).
Ad oggi, tuttavia, ancora molti paesi e territori sono privi di norme Cfc, tra cui spiccano Svizzera, India, e Singapore.
Se da un lato molti paesi hanno scelto, più o meno spontaneamente (vedi l’obbligo di implementazione della direttiva Atad 1 da parte dei paesi Ue), di dotarsi di un set di norme specifiche per fronteggiare i rischi Cfc, dall’altro lato la diversa modulazione degli interventi legislativi tra i paesi cosiddetti “virtuosi” rappresenta, al pari della totale assenza di regole relative, un rischio per il corretto funzionamento dei mercati interni, di erosione di base fiscale e di spostamento dei profitti verso paesi privi degli standard di protezione da rischi Cfc.
Sulla base di queste considerazioni, il G20 e l’Ocse hanno portato avanti, all’interno del macro Progetto base erosion and profit sharing (Beps) a cui hanno aderito 135 paesi, anche una proposta di intervento specifico sulle Cfc.
Con l’Action 3 “Designing effective controlled foreign company rules” del Progetto Beps, il cui final report ha visto la luce nel 2015, sono state date indicazioni agli stati che intendono dotarsi di un efficace strumento per la prevenzione degli abusi fiscali da Cfc. Le “raccomandazioni” contenute nel final report si concentrano principalmente sulle seguenti aree di intervento: definizione di controlled foreign company, esenzioni Cfc e requisiti di soglia, definizione di reddito delle controlled foreign company, calcolo del reddito Cfc, attribuzione del reddito Cfc ai soci e prevenzione o eliminazione della doppia tassazione.
Per quanto riguarda l’esenzione Cfc e i requisiti di soglia, il final report raccomanda la previsione di un’esenzione per le società estere controllate assoggettate ad aliquote fiscali effettive significativamente inferiori a quelle applicate nel paese del soggetto controllante.
Il merito, invece, alla definizione di reddito Cfc, il final report dell’Action 3 riconosce la necessità di garantire ai paesi la flessibilità necessaria per definire regole delle controlled foreign company coerenti con la propria politica interna in quanto i criteri per definire il reddito Cfc dipendono dal grado di rischio di erosione di base imponibile e di trasferimento all’estero di profitti che ciascuna giurisdizione deve affrontare. Il final report propone, quindi, una lista (non esaustiva) di approcci che gli stati possono adottare per la determinazione del reddito della Cfc (che in questa sede si tralasciano per sintesi di esposizione).
Il merito poi al calcolo del reddito della Cfc, il final report raccomanda agli stati di utilizzare le regole della giurisdizione del soggetto controllante e di prevedere norme specifiche che limitino la compensazione delle perdite Cfc in modo che le stesse possano essere utilizzate solo in compensazione con gli utili della stessa Cfc o con utili di altre controlled foreign company localizzate nella stessa giurisdizione.
Secondo il G20/Ocse il reddito della Cfc ai soci deve essere allocato tenendo conto della quota di partecipazione o di influenza e assoggettato a tassazione sulla base dell’aliquota fiscale della giurisdizione del soggetto controllante.
Infine le norme in materia di Cfc devono garantire che dalla loro applicazione non derivi la doppia imposizione del reddito Cfc. La prevenzione della doppia tassazione passa attraverso la previsione del credito per le imposte estere corrisposte dalla controlled foreign company e l’esenzione dei dividendi distribuiti da Cfc e delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni di Cfc i cui redditi sono già stati in precedenza assoggettati ad imposizione per effetto delle norme Cfc.
L’intento dell’Action 3 è sicuramente pregevole ed espresso nel titolo ambizioso “Designing effective controlled foreign company rules assegnato al Progetto Beps.
C’è da chiedersi se lo sforzo congiunto del G20 e dell’Ocse abbia tracciato chiaramente i confini della materia e abbia rappresentato una sollecitazione agli stati che hanno aderito al progetto a introdurre per la prima volta norme per le Cfc ovvero a modificare le norme preesistenti in linea con le raccomandazioni contenute nel final report dell’Action 3. L’impressione è che in alcuni passaggi l’ampia libertà di azione data agli stati faccia perdere forza alle indicazioni di G20/Ocse e che le stesse non rappresentino una raccomandazione (né mai hanno rappresentato un obbligo). Questa debolezza è sintomo delle stesse difficoltà che da sempre incontrano progetti ambiziosi che mirano a uniformare a livello internazionale le regole fiscali quali la definizione di una base imponibile comune ovvero la più recente global minimum tax sulle multinazionali. La stessa direttiva Atad 1 che ha obbligato gli stati membri ad adottare un set di regole che offrissero un livello di protezione minimo dagli abusi fiscali derivanti da strutture Cfc ha lasciato ai singoli stati la facoltà di introdurre norme più severe cosicché alcuni paesi hanno adottato le regole minime Atad 1 mentre altri hanno introdotto regole molto più severe e stringenti con il risultato che anche la direttiva Atad si è allontanata, seppur in misura minore rispetto all’Action 3, dall’obiettivo di dare rigore e omogeneità alle regole da applicare alle strutture societarie transnazionali e di evitare perdite di gettito a favore di giurisdizioni particolarmente aggressive dal punto di vista fiscale.