Più in dettaglio, i pilastri del Ngeu sono: la transizione verde, la trasformazione digitale, la crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, la salute e la resilienza economica, sociale e istituzionale e le politiche per le nuove generazioni, l’infanzia e i giovani. Si tratta di un programma rivoluzionario per l’Europa, che segna un momento di discontinuità drammatica con le politiche precedenti, sia perché rappresenta il superamento dell’austerità tanto cara ai Paesi del nord Europa sia, soprattutto, perché sarà finanziato in larga parte tramite l’emissione di strumenti di debito da parte della stessa Eu, capovolgendo, in questo modo, l’approccio finora adottato dall’Unione in relazione alle risorse proprie. Infatti, tradizionalmente, la Ue spende denaro solo dopo averlo raccolto dai Paesi Membri, mentre qui succede l’opposto: la Ue prima spende, trasferendo fondi agli Stati membri tramite il Ngeube, solo successivamente, nel corso dei prossimi decenni, raccoglierà denaro dagli Stati membri.
La quota di queste risorse allocate all’Italia è significativa: per il nostro Paese sono disponibili, infatti, 191,5 miliardi circa nel programma Rrf (di cui 68,9 miliardi in sovvenzioni a fondo perduto e 122,6 miliardi in prestiti a tasso agevolato) e 13 miliardi a valere sul React-Eu.
A questi fondi, per quanto riguarda le risorse complessive destinate all’Italia da parte dell’Europa, vanno aggiunti quelli di altri programmi europei diversi dal Ngeu, cioè l’Accordo di partenariato sui fondi strutturali 2021-2027 che assegna all’Italia 83 miliardi di euro circa nonché il Fondo per lo sviluppo e la coesione 2021-2027 che assegna all’Italia 50 miliardi di euro circa già deliberati e altri 23 miliardi circa da deliberare nel 2022.
I fondi del Ngeu possono essere chiesti all’Europa dai vari Stati membri a condizione che vengano impiegati nelle aree prioritarie dalla stessa indicate e sulla base di un programma di investimenti e riforme specifico per il singolo Paese, il cosiddetto Piano nazionale di ripresa e resilienza. Per ottenere i fondi, l’Italia ha presentato il proprio Pnrr nei mesi scorsi, ottenendo lo scorso 13 luglio il via libera formale da parte della Commissione europea.
Il piano italiano si articola in una serie di azioni, articolate in 16 componenti, a loro volta raggruppate in sei missioni e prevede l’utilizzo di tutti i fondi allocati all’Italia dal Ngeu e di risorse nazionali per ulteriori 30,6 miliardi di euro circa (derivanti dall’utilizzo del Fondo complementare istituito con decreto legge n. 59 del 6 maggio 2021 a valere sullo scostamento pluriennale di bilancio approvato dal consiglio dei ministri lo scorso aprile). Il piano prevede, inoltre, l’implementazione di riforme strutturali che permettano da un lato agli investimenti effettuati in esecuzione del piano di esplicare la massima efficacia e, dall’altro, di colmare il divario fra l’Italia e l’Europa in vari ambiti.
Circa le azioni, cioè dove saranno spesi i fondi di cui sopra, il piano prevede le seguenti sei missioni:
- Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura, con precisi obiettivi di sostanziale incremento della connettività della popolazione, delle scuole e del servizio sanitario nazionale, oltre che in materia di approccio digitale per il rilancio del turismo e della cultura. Le risorse stanziate sono pari a circa 49,2 miliardi di euro.
- Rivoluzione verde e transizione ecologica, con interventi in materia di il riciclo dei rifiuti, riduzione di perdite di acqua potabile sulle reti idriche, miglioramento dell’efficienza energetica degli edifici e sviluppo dell’uso dell’idrogeno, quale alternativa a combustibili inquinanti. Le risorse stanziate sono pari a 68,6 miliardi.
- Infrastrutture per una mobilità sostenibile: modernizzazione delle ferrovie regionali, tempi ridotti sulle tratte ferroviarie e investimenti sui “porti verdi”. Qui, sono allocati fondi per 31,4 miliardi.
- Istruzione e ricerca, con l’obiettivo di creare nuovi posti in asilo; evolvere le classi in “connected learning environments”; ristrutturare e cablare scuole e istituire nuovi dottorati. Le risorse allocate sono di 31,9 miliardi di euro.
- Inclusione e coesione, con i seguenti obiettivi principali: istituire un programma nazionale per garantire l’occupabilità dei lavoratori e un “fondo impresa donna” a sostegno dell’imprenditorialità femminile; destinare più sostegni alle persone vulnerabili, non autosufficienti e con disabilità, effettuare investimenti infrastrutturali in determinate aree territoriali raggruppate in Zone economiche speciali. I fondi a disposizione sono in questo caso pari a 22,4 miliardi.
- Salute, con gli obiettivi, fra gli altri, di istituire nuove case di comunità e ospedali di comunità per l’assistenza di prossimità, fornire assistenza domiciliare al 10% degli ultra sessantacinquenni, istituire nuove centrali operative territoriali per l’assistenza remota e acquisire oltre 3.000 nuove grandi attrezzature per diagnosi e cura. I fondi stanziati sono 18,5 miliardi.
Le riforme sono articolate in gruppi, a seconda della loro natura e importanza:
- riforme orizzontali o di contesto: riforma della pubblica amministrazione, degli appalti e del sistema giudiziario;
- riforme abilitanti: semplificazione legislativa e promozione della concorrenza;
- riforme settoriali, specifiche ai settori interessati dagli investimenti di cui sopra e necessarie od opportune per accompagnare tali investimenti.
Come si vede, l’importo delle risorse stanziate nel piano è di tutto rispetto: comprese quelle prelevate dal Fondo complementare italiano (30,6 miliardi) si tratta di circa 234,5 miliardi di euro, una percentuale consistente dell’intera spesa pubblica annuale italiana, di cui 68,9 miliardi ottenuti a fondo perduto, cioè senza obbligo di restituzione, ed il resto a debito, per la maggior parte a tasso agevolato.
Sono fondi sufficienti a rilanciare l’Italia? A una domanda così complessa, va data una risposta più articolata di quanto si possa fare in questa sede. Si possono, però, fare alcune osservazioni importanti: il Pnrr italiano stima l’impatto di queste misure sul Pil in circa il 3,6% di crescita in più rispetto alla crescita attesa senza l’implementazione del piano e non esclude che la crescita possa anche essere superiore. È un tasso molto elevato, se si considera che l’Italia ha tradizionalmente raggiunto tassi di crescita del Pil molto contenuti (di solito, intorno all’1%).
Inoltre, la maggior parte delle risorse è destinata a nuovi investimenti e solo in misura contenuta al finanziamento di misure di spesa già esistenti e anche questa è una buona notizia, perché gli investimenti producono un incremento del Pil non solo nell’anno in cui sono effettuati, ma anche in quelli successivi, tramite l’incremento di produttività che determinano. Ciò, a differenza della spesa corrente che generalmente esaurisce i suoi effetti nell’anno in cui è sostenuta. Anche questo è un elemento positivo.
Infine, ma non per questo meno importante, va ricordato l’elemento delle riforme, troppe volte considerato il prezzo da pagare all’Europa per poter accedere ai fondi del Ngeu e per questo discusso, contestato e, a volte, anche criticato dalle varie parti politiche. Le riforme, tuttavia, non sono il boccone amaro che un’Europa cocciuta e lontana ci impone per avere i fondi che ci servono come l’aria. Le riforme sono, prima di tutto, ciò di cui l’Italia ha veramente bisogno per ripartire: la nostra giustizia è fra le più lente d’Europa e questa lentezza è uno dei fattori principali che scoraggiano gli investimenti in Italia, oltre a essere una cosa ingiusta anche solo sotto il profilo etico. In questo senso, tutto il dibattito politicamente orientato circa la reintroduzione di termini di prescrizione nel processo penale e il suo negativo effetto sulla capacità dei tribunali di fare giustizia è mal posto. La riforma della giustizia penale (che è una parte della complessiva riforma del sistema giudiziario) fa il paio con gli investimenti previsti in proposito dal piano, volti a rendere efficiente il lavoro dei tribunali prevedendo, fra le altre misure, il ricorso alla digitalizzazione e il potenziamento delle cancellerie e dell’apparato amministrativo dei tribunali. Ridurre il dibattito all’argomento che i giudici, oberati di lavoro, non riescano a far giustizia se si accorciano i tempi in cui indagini e processi possono essere fatti è fuori segno, perché la realtà è che i tempi della giustizia italiana sono semplicemente troppo lunghi, costano all’Italia troppo sia in termini di compressione delle libertà e dei diritti individuali sia in termini strettamente economici, perché impediscono la crescita delle imprese italiane e disincentivano gli investimenti stranieri.
Argomentazioni analoghe possono essere svolte per la riforma del codice degli appalti, essenziale per permettere l’effettuazione degli investimenti pubblici (inclusi quelli del piano) in tempi ragionevoli. Non si discute la necessità di avere dei presidi per contrastare l’infiltrazione della criminalità organizzata negli appalti pubblici e fenomeni di corruzione. Tuttavia, se poi servono tempi lunghissimi per realizzare un’opera pubblica, allora è ovvio che il sistema non va bene e deve essere riformato. La vicenda della ricostruzione del Ponte Morandi ne è un esempio: il ponte è stato ricostruito in tempi record grazie alla sospensione dell’applicazione di alcune norme del codice degli appalti.
Anche la semplificazione legislativa, volta a eliminare procedure autorizzative e controlli di fatto inutili e a razionalizzare l’impianto normativo esistente, accompagnata alla riforma della pubblica amministrazione in chiave di maggior efficienza e di maggiore meritocrazia, va salutata con favore: una legislazione chiara e snella e una pubblica amministrazione efficiente sono essenziali per favorire la produttività, la crescita delle nostre imprese e gli investimenti dall’estero. Argomenti simili sostengono anche l’opportunità di una riforma legislativa che porti maggiore concorrenza.
Infine, è positivo che si intenda lavorare a una riforma fiscale e del sistema dei sussidi: ogni volta che si incide così profondamente sul sistema economico di un Paese, è importante considerare anche gli effetti sui singoli e ricalibrare il prelievo fiscale e l’erogazione dei sussidi in modo da tutelare chi è in difficoltà, fare in modo che i costi della collettività siano sopportati equamente e che la redistribuzione del reddito (che si suppone e si spera incrementato dagli investimenti e dalle riforme del Pnrr) benefici chi ha effettivamente bisogno e non colpisca ingiustamente strati della popolazione a danno di altri.
Quindi, è un buon piano? Tutto sommato, sembra di sì.
Rilancerà l’Italia? Se implementato bene, contribuirà sicuramente al rilancio.
Sarà sufficiente a mettere l’Italia in sicurezza?
Questo, realisticamente, non succederà: l’implementazione del Pnrr spingerà l’Italia fuori dallo stallo e la aiuterà molto a ripartire.
Tuttavia, un’Italia in moto non è ancora un’Italia sicura e, dopo questo primo passo, ne serviranno molti altri per continuare a muoverci nella giusta direzione, alcuni coraggiosi e altri difficili. Ad esempio, il nostro Paese uscirà dalla pandemia fortemente indebitato. Quando succederà, le istanze dell’Europa a proposito della riduzione del debito pubblico torneranno. È vero che l’Europa ha compiuto un passo epocale, sospendendo le regole relative all’eccesivo indebitamento, ma questo non significa che la sospensione durerà per sempre. Questo implica la necessità di affrontare il nodo, politicamente rovente, del debito pubblico, delle imposte patrimoniali, dell’efficienza complessiva dello Stato (tema collegato, ma non esaurito, dalle riforme previste nel piano) e della permanenza dell’Italia nella Eu, in un contesto in cui l’Europa sarà più forte.
Sì, perché, come affermato all’inizio di questo articolo, l’Europa ha cambiato passo: da un lato, ha capito che da una crisi economica si esce spendendo, anziché imponendo austerità, ma dall’altro ha lanciato un piano finanziato con l’indebitamento della Eu stessa (fino al 2058) e questo ha portata epocale, perché implica l’accettazione che, quanto meno in tempi straordinari, l’Unione possa espandere il proprio bilancio autonomamente (cioè, senza aspettare trasferimenti di denaro dagli Stati Membri).
Ciò rende l’Eu più forte, nei confronti degli Stati membri e le fornisce l’argomento per chiedere maggiori risorse proprie, realisticamente nella forma di un prelievo fiscale propriamente Eu (invece che nella forma dei tradizionali trasferimenti di fondi che i singoli Stati membri effettuano a favore dell’Unione). È significativo, in proposito, che la Commissione Eu stia già pensando all’implementazione di imposte di natura europea (digital tax, carbon tax, plastic tax, carbon adjustment mechanism, emission trading system e la già nota financial transaction tax), realisticamente gestite e governate direttamente dalla Eu, con ciò rompendo il tabù politico che la politica fiscale debba restare di competenza dei singoli Stati Membri (anche e nonostante il fatto che la politica monetaria sia già devoluta alla Eu).
Quindi, realisticamente, avremo un’Italia ancor più legata all’Europa e una Eu più forte, capace di influire ancor più incisivamente sulle scelte dell’Italia; un’Europa, in sintesi, ancor più efficace di oggi di incidere sulle scelte politiche, economiche e sociali dell’Italia, con una capacità di indirizzo e direzione pervasive.
Ne usciremo vivi? La risposta, di nuovo dipende dai passi, qualcuno coraggioso, qualche altro difficile, che l’Italia saprà fare dopo il Pnrr. Un’Italia forte che assuma le sue responsabilità e rivendichi un ruolo guida serve all’Europa molto più di un’Italia debole. Succederà se l’Italia si doterà di una classe politica capace di produrre governanti illuminati, un po’ meno populisti e un po’ più statisti.