I big data e l’esaltazione dell’intelligenza artificiale (capace di gestire quantità immense di dati), rischiano di farci perdere la bussola e di farci dimenticare che dobbiamo continuare a coltivare anche l’intelligenza naturale (capace di privilegiare la qualità dei dati). Probabilmente, il tutto si risolve in una questione più di approccio che di merito, trasversale rispetto a moltissimi campi applicativi, da quello del consumo di risorse a quello della contribuzione alla spesa pubblica (e della relativa riforma che si profila nuovamente all’orizzonte).
Dall’approccio quantitativo all’approccio qualitativo
“La chiave sta nel ricostruire un’economia che sia focalizzata più sulla qualità rispetto alla quantità. Tutto ciò significa andare controcorrente e acquistare prodotti più duraturi, anche se questi possono costare di più… Noi consumatori abbiamo un potere straordinario nel decidere come condizionare le classi dirigenti che determinano le evoluzioni dei mercati e le politiche dei governi, ma dobbiamo prendere coscienza e fare la differenza”. Sono le parole di un giornalista e docente universitario canadese, J.B. Mackinnon, contenute nel suo libro “Il giorno in cui il mondo smette di comprare”.
In poche parole, per salvare noi stessi e il pianeta occorre consumare meno e consumare meglio. Dobbiamo quindi affrancarci da un approccio quasi esclusivamente quantitativo e tornare (o cominciare) a privilegiare la qualità.
Intelligenza artificiale e intelligenza naturale: una “falsa alternativa”
L’abbondanza e i bassi costi della memoria informatica hanno avviato una rivoluzione digitale inarrestabile, che porta indubbiamente molti benefici (si pensi solo nel campo medico quanti miglioramenti sono dovuti alla rapida gestione di una mole immensa di informazioni), ma che rischia di sviarci rispetto alle vere “magnifiche sorti progressive”.
Il rischio è che si faccia largo, a mio avviso, una “falsa alternativa”: intelligenza artificiale (innanzitutto quantità) contro quella naturale (innanzitutto qualità) – falsa perché le due possono e debbono convivere, auspicabilmente sovrastate entrambe dalla coscienza (umana).
Riporre la qualità al centro della prospettiva sarebbe, a mio modo di vedere, il sistema più semplice e sicuro per rivitalizzare l’intelligenza naturale.
Conosco molti campi in cui ciò mi sembra possa valere, non ultimo quello della contribuzione alla spesa pubblica e il modo in cui la stessa è amministrata.
Il ruolo della formazione
Già in altri interventi, su questa testata, ho avuto modo di commentare la riforma fiscale ventilata dal governo Draghi, mentre quella ora portata avanti dal viceministro Maurizio Leo dovrà essere valutata sulla base dei principi che in concreto troveranno attuazione. In questa sede mi preme sottolineare invece come l’intelligenza naturale, declinata in ambito tributario, si risolva in ultima analisi in formazione continua del personale: occorre investire continuativamente sulle persone che amministrano il fisco, perché molto dipende dal legislatore, ma non poco da chi interagisce in prima linea con i contribuenti.
In questo senso la riforma della giustizia tributaria, varata nell’anno che si sta chiudendo, prevede opportunamente una formazione continua dei giudici tributari, aspetto a mio avviso qualificante (di una riforma per altri versi criticabile). La formazione dovrebbe diventare l’elemento chiave della società moderna, a partire dall’istruzione (occorre formare e coltivare i docenti, se vogliamo trasferire qualità sui discenti); del resto, secondo Roger Abravanel (“Aristocrazia 2.0, Solferino editore), il futuro è dell’economia della conoscenza, e non della manifattura.