Amore per l’umanità. E’ in questa definizione, sintesi tra le parole greche filèo (amare) e ànthropos (uomo), che si esplica una delle forme più caratteristiche della generosità. Filantropo è colui che aiuta il prossimo con il suo patrimonio. Non si tratta tuttavia di fare ‘la carità’. Mentre questa mira ad alleviare la sofferenza associata a un particolare disagio sociale, la filantropia punta a estirpare la causa alla radice del problema. Il concetto, così come le forme di generosità, è antico e nel tempo si è esplicitato in molteplici forme e strumenti.
In Italia la filantropia muove complessivamente 9,1 miliardi di euro, posizionando il Paese al terzo posto in Europa dopo Regno Unito con 25,3 miliardi e Germania con 23,8 miliardi (stima 2017 Ernop, European Research Network on Philanthropy). Del totale delle donazioni italiane, circa 4,6 miliardi provengono da elargizioni individuali, 1,5 miliardi da fondazioni (poco più di 1 miliardo dalle fondazioni di origine bancaria e circa 200 milioni dalle fondazioni di impresa), il rimanente da lasciti testamentari, erogazioni da parte di imprese e altre modalità informali (rapporto della Fondazione Lang).
Oggi il filantropo agisce tramite il proprio sostegno a enti, fondazioni, società o istituti di ricerca. Ma il passare degli anni e soprattutto il ricambio delle generazioni, ha portato allo sviluppo di nuovi paradigmi filantropici. Chi sono attualmente i filantropi? La risposta più immediata – perlomeno in termini quantitativi – è quella di Millennials. I giovani nati dagli anni Ottanta in poi sono infatti i sostenitori delle ‘buone cause’ di oggi. “Queste nuove generazioni sono cresciute con l’idea del volontariato e dell’essere di aiuto alla comunità, sia in senso lato che pratico”, spiega la professoressa Arianna Arisi Rota, delegato del Rettore dell’Università di Pavia per il Fund Raising Istituzionale.
Secondo la professoressa Arisi Rota, “c’è un nuovo atteggiamento dei filantropi, soprattutto di quelli che appartengono alla generazione dei nativi digitali, sia a livello di individui che di famiglie. Assumendo una tendenza proveniente della West Coast, dove la Silicon Valley ha mostrato un’accelerazione nell’innovazione al servizio della generosità, i Millennials sono più sensibili al mondo della tecnologia e della ricerca.
Secondo i dati dell’ultima edizione di Donare 3.0, la ricerca di PayPal e Rete del Dono sulla diffusione delle donazioni tra gli italiani che usano internet, le associazioni alle quali sono state fatte donazioni negli ultimi dodici mesi sono state principalmente quelle legate alla categoria Salute e alla ricerca (57%), seguite da Emergenza e protezione civile (27%), Sostegno e servizi per disabili (25%), Assistenza sociale (24%), e Tutela dell’ambiente e degli animali (22%). Un chiaro esempio di come si sia affermata una nuova epistemologia del donare, sostenuta dalle nuove tecnologie informatiche partecipative del dono.
L’idea alla base del mutato rapporto tra chi dona e chi riceve non è più quella di un sostegno ‘mordi e fuggi’, composto di singole e sparpagliate donazioni. Il filantropo di oggi “vuole essere più informato, più aggiornato, soggetto molto attivo del processo di donazione ed è anche meno interessato a “ricavare un profitto immediatamente economico dalla sua donazione, ma piuttosto a aiutare l’avanzamento della conoscenza e il miglioramento della qualità di vita delle persone”, sottolinea Arisi Rota. La nuova filantropia prevede, cioè, che il rapporto donatore-beneficiario sia più duraturo e informato. Mutano le procedure del donare: il donatore non è più necessariamente anonimo e certamente vuole seguire il percorso del proprio dono, ovvero trasparenza, accesso ai dati, tracciabilità delle attività, conoscenza degli impatti sono le richieste che accompagnano l’impegno per la liberalità.
Di conseguenza l’investimento, anche se parte sempre da un motus di natura etica ed emotiva, dovrà essere molto più personalizzato. In questo senso valutazione e scelta dei donors possono essere sostenute da istituzioni e strutture che offrono categorie di buone cause chiaramente apprezzabili e individuabili, ben descritte e comunicate e soprattutto che facilitino un dialogo in tempo reale con i responsabili dei progetti e una rendicontazione più stringente. “Il nuovo filantropo – chiarisce la professoressa Arisi Rota – ha assolutamente bisogno di un mediatore professionista (che può essere il philanthropy advisor, la philanthropy unit di una banca piuttosto che di una fondazione), ma sicuramente i suoi gusti e le sue propensioni oggi hanno più possibilità di trovare un matching con progettualità forti”.
Ecco allora che le scelte dei nuovi filantropi richiedono l’indirizzo di diverse figure. Prima tra tutte quella delle fondazioni, anche se le discussioni in merito all’influenza di queste sul mondo della politica hanno già preso spazio nelle pagine della letteratura. Altra risorsa fondamentale è quella del consulente. Già da molti anni imprese, fondazioni e famiglie facoltose si avvalgono della consulenza di specialisti per donare sulla base di elementi razionali: l’esistenza di un bisogno reale, la compatibilità con le proprie risorse, risultati sociali misurabili.
Secondo un recente sondaggio di U.S. Trust, oltre tre quarti dei consulenti ha notato un impatto positivo sulla propria linea di fondi dopo aver avuto discussioni filantropiche: il 60% ha detto che li ha aiutati a trovare nuovi clienti, il 74% ha affermato di aver approfondito le relazioni esistenti e il 63% che la filantropia è stata il tramite per aver costruito relazioni con la famiglia estesa del cliente. Tuttavia dalla stessa analisi di Trust, che ha coinvolto circa 100 persone con 3 milioni o più di dollari investiti in attività filantropiche, è emerso che meno della metà dei clienti High Net Worth si ritiene soddisfatta delle discussioni filantropiche intraprese con i propri consulenti.
Esiste un ulteriore veicolo di intermediazione tra donatore e beneficiario: il mondo delle università. L’environment accademico di qualità può offrire un portfolio ineguagliabile, in quanto dipartimenti e laboratori sono nella trincea della ricerca, in tutti i settori”, commenta Arisi Rota. Per la professoressa, il mondo accademico è garanzia di “una ricerca di qualità, non improvvisata, non episodica, correlata a filiere decennali (o secolari) di studi”. In sintesi, “tradizione ma nell’innovazione”, sostenuta anche dalle “nuove generazioni di studiosi, che si formano in università e portano la loro testimonianza”.
Le convinzioni della professoressa sono sostenute dalle esperienze avviate dall’Università di Pavia. L’ateneo ha lanciato ‘Universitiamo by Unipv‘, la prima piattaforma italiana di ‘CrowdResearching‘, dove chiunque può contribuire alla ricerca scientifica, in diversi modi: con una donazione, con un suggerimento per i progetti più meritevoli, con indicazioni per migliorarli. Sta inoltre per lanciare la ‘The Creating Bridges Campaign‘, una campagna internazionale di raccolta fondi con apposito portfolio, autentica novità per un’Università pubblica italiana. “Una ricerca coltivata in un hub come quello universitario con una grande storia e reputazione è una garanzia per il donatore.
Questo anche dal momento che il mercato della donazione sta subendo sollecitazioni infinite e si sta frammentando. E il ‘mordi e fuggi’ potrebbe essere il rischio”, avverte Arisi Rota. “Se un investitore o una famiglia prominente è in cerca di buone cause affidabili credo che l’ambiente di un’università di ricerca avanzata possa essere un interlocutore privilegiato”, conclude la professoressa.
La complessa architettura del donare contemporaneo è vasta e articolata. Per stare al passo dei cambiamenti, società, fondazioni e istituti dovranno inventare nuove pratiche e etiche della generosità. Si stima che in Italia entro il 2025 il gap tra risorse pubbliche e domanda di servizi sociali arriverà a 70 miliardi (Oxford Economics). Ripensare l’etica del donare portebbe diventare sempre più necessario.