L’Erario cerca di attrarre a tassazione la plusvalenza realizzata a seguito della cessione di automobili da collezione ma i giudici tributari dicono che non si tratta di reddito imponibile. Con la sentenza n. 261/2020 depositata il 2 luglio 2020 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di Brescia è stato quindi annullato l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate che aveva contestato in capo al suo proprietario la mancata tassazione come reddito della differenza tra il prezzo di vendita e quello di acquisto di automobili storiche facenti parte di una collezione.
Secondo i giudici il collezionista non ha svolto queste operazioni di vendita con il carattere della abitualità e della commercialità e non ha compiuto atti preparatori tesi a incrementare il valore dei beni ceduti o atti preordinati alla successiva rivendita degli stessi. Nel caso specifico si è trattato di una mera dismissione di beni detenuti in una collezione. La decisione segue altre precedenti in cui è stato ancora l’Erario a soccombere davanti a contestazioni di questo tipo.
Ricordiamo tra questi la sentenza n. 351/2018 della Commissione Tributaria Provinciale di Torino, la sentenza n. 33 del 23 ottobre 2003 della Commissione Tributaria Provinciale di Pisa e la sentenza n. 118 del 9 novembre 2000 della Commissione Tributaria Regionale di Venezia. Tutte decisioni aventi ad oggetto la dismissione di automobili da collezione. Nonostante questo orientamento giurisprudenziale contrario e l’assenza di una specifica norma che attragga a tassazione in termini generali le plusvalenze derivanti dalla cessione di beni detenuti in una collezione il Fisco monitora questo tipo di operazioni e spicca avvisi di accertamento chiedendo imposte, sanzioni e interessi sulla base della qualificazione come “attività commerciale occasionale” dei redditi in tal modo prodotti (viene richiamato in tal senso l’art. 67, comma 1, lett. i, del D.P.R. 917/1986).
È vero che le sentenze citate sono state emesse da giudici di merito ma occorre rilevare che l’accertamento degli elementi sopra descritti – affinché non ricorra la tassazione del reddito derivante dalla vendita – è soprattutto un accertamento di fatto che può essere condotto nel nostro sistema soltanto dai giudici di primo e secondo grado e non anche dalla Suprema Corte. Dunque le pronunce indicate hanno un peso specifico importante. In questo contesto giuridico, le dismissioni di beni da collezione inevitabilmente, prima di essere effettuate, devono essere verificate alla luce delle contestazioni che ai fini fiscali potrebbero essere mosse.
Vale per le automobili come per le opere d’arte e qualsiasi altro bene da collezione. Per la non tassazione è essenziale che non ricorra un manifesto intento speculativo. Il comprare automobili di valore collezionistico con il preciso intento di rivenderle nel breve termine per realizzare un prezzo superiore a quello di acquisto rappresenta un comportamento fiscalmente rilevante che da luogo senz’altro alla tassazione della differenza. In termini generali l’intervallo di tempo intercorrente tra l’acquisto e la rivendita, se non breve, gioca a favore del collezionista. È importante poi soffermarsi sulla provenienza dei beni. Se le automobili provengono da una eredità o donazione e il beneficiario successivamente decide di venderle perché non interessato a continuare il progetto o semplicemente per necessità, allora non ricorre sicuramente alcun intento speculativo.
La dismissione poi potrà avvenire con una vendita unica che coinvolga tutta la collezione oppure potrà avvenire nel medio-lungo termine con vendite separate. In quest’ultimo caso le vendite possono essere utili a finanziare l’acquisto di altri beni da collezione o a soddisfare sopravvenute esigenze economiche del collezionista. E così si susseguono gli acquisiti alle dismissioni fino al definitivo trasferimento della collezione a eredi o associazioni oppure fino alla vendita vera e propria sul mercato. Anche l’acquisto e la rivendita di un unico esemplare di interesse collezionistico soggiace allo stesso processo.
L’incremento di valore dei beni non deve essere riconducibile ad una attività commerciale da parte del proprietario finalizzata appunto a trarne profitto attraverso promozioni alla vendita, pubblicità, reiterate inserzioni, trattative serrate di vendita, partecipazione ad eventi fieristici per promuovere l’acquisto del bene ecc. Deve originare autonomamente dal bene che grazie alle sue caratteristiche e al mercato si rivaluta nel tempo. In ultimo, i pagamenti derivanti dalla cessione dei beni devono essere tracciati. Se è vero che l’accertamento condotto dall’Agenzia delle Entrate nel caso esaminato dai giudici bresciani è stato originato proprio dall’accredito di somme sul conto corrente del collezionista è altrettanto vero che la mancata evidenza dell’ammontare percepito legittima l’Erario a calcolarlo in via presuntiva secondo i valori di mercato disponibili.