Dopo il caso Chat Gpt per violazioni della normativa Gdpr, allo stato archiviato per essersi il provider OpenAI conformato alle prescrizioni, l’Italia si ripresenta nuovamente sulla scena internazionale affrontando questioni digital particolarmente complesse.
Ha destato clamore la notizia emersa dagli organi di stampa (ormai nel febbraio 2023) di una verifica fiscale condotta nei confronti di Meta, il colosso americano guidato da Mark Zuckerberg.
Meta sarebbe accusata di omessa dichiarazione dell’Iva dovuta su operazioni, asseritamente gratuite, di scambio tra dati personali degli utenti – utilizzati per la pubblicità profilata – e i servizi delle piattaforme social offerti dalla stessa società.
La vicenda Meta ha riportato l’attenzione sulla centralità dei dati nell’era digitale nell’attuale contesto globale di digitalizzazione e si presta a riflessioni per i dirompenti effetti che potrebbe avere per i provider di servizi simili a quelli offerti dalla società americana.
Perché i dati personali assumo centralità nella “data economy”?
Con milioni di utenti iscritti Facebook, Instagram e Whatsapp sono senza dubbio alcune tra le piattaforme social più utilizzate al mondo. Tutte appartengono alla galassia di proprietà del gruppo Meta che infatti è considerato uno dei maggiori player del settore. Gran parte delle fortune delle big tech come Meta sono state costruite grazie alla capacità di utilizzare i dati personali degli utenti ai fini di attuare massicce campagne di online advertising.
Nella pratica, infatti, i dati personali degli utenti, come ad esempio l’età, il sesso, la loro posizione geografica e le preferenze di acquisto, sono elementi preziosi per le società che, attraverso i social media, cercano di raggiungere un target specifico di pubblico con la pubblicità online.
Le grandi società tecnologiche (come Meta) raccolgono questi dati per “profilare” i propri utenti. Ricavano poi ingenti profitti dalle vendite dei dati così elaborati agli inserzionisti operanti all’interno del proprio network.
Questi modelli di business sono spesso “messi all’indice” dato che fonderebbero la loro elevata profittabilità sulla scarsa (o nulla) consapevolezza degli utenti relativamente alla messa a disposizione dei loro dati personali alle piattaforme.
Ad esempio, nelle condizioni d’uso di Facebook che gli utenti devono accettare al momento dell’iscrizione alla piattaforma, si specifica (in una clausola che “si perde” in mezzo alle decine di altre disposizioni contrattuali) quanto segue:
“… Anziché pagare per l’uso di Facebook e degli altri prodotti e servizi offerti, utilizzando i prodotti di Meta … l’utente riconosce che Meta possa mostrare inserzioni personalizzate e altri contenuti commerciali e sponsorizzati, la cui promozione all’interno e all’esterno dei prodotti delle aziende di Meta avviene dietro pagamento da parte di aziende e organizzazioni …”.
In data 4 luglio 2023 la corte di Giustizia europea è intervenuta affermando che Facebook, per svolgere attività di personalizzazione della pubblicità, non può fare affidamento sulla base giuridica dell’esecuzione del contratto ma dovrebbe ottenere specifico consenso degli interessati (cosa che al momento non avviene).
Tale decisione avrà fortissimi impatti sul mondo digital. In questa sede, non entreremo però nel merito di tale pronunciamento.
Ai fini della nostra analisi, è sufficiente infatti riconoscere la centralità che i dati assumono in termini di redditività per gruppi come le big tech. I personal data presentano infatti caratteristiche analoghe a un bene immateriale con un valore economico. A riguardo, si nota come sia pacifico che il colosso americano per i propri servizi (a prescindere dalla base giuridica su cui è fondata la personalizzazione dei contenuti per gli utenti) non richiede un corrispettivo in denaro ma ottiene come “contro-partita” la possibilità di trattare i dati personali dei propri utenti.
L’indagine della procura europea e di Milano
Ed è infatti proprio sulla base di questa considerazione che si inserisce l’indagine nei confronti di Meta avviata dalla procura europea e trasferita per competenza alle competenti autorità milanesi.
Sulla base delle informazioni disponibili in rete, sarebbe ipotizzato il reato di omessa dichiarazione dell’Iva (assorbente dell’omesso versamento dell’imposta) asseritamente dovuta dalla società italiana del gruppo Meta sui corrispettivi delle operazioni poste in essere con gli (asseritamente ignari) utenti italiani. In pratica, la base imponibile dell’imposta che si ritiene sottratta all’erario ammonterebbe al valore dei dati personali che Meta avrebbe acquisito dagli utenti italiani al momento della registrazione sulle piattaforme del gruppo tra gli anni 2015 e 2021. Durante tale periodo, secondo gli accertatori l’imposta dovuta da Meta all’erario italiano ammonterebbe a circa €220 milioni un di cui dei complessivi circa €870 milioni dovuti a livello europeo.
È ragionevole ipotizzare che i verificatori abbiano contestato il fatto che il consenso all’uso dei dati in cambio del servizio offerto da Meta (attraverso Meta Platforms Ireland Ltd.) sia solo in apparenza caratterizzato da gratuità, requisito che ne avrebbe escluso la rilevanza ai fini Iva e di cui difetterebbero per definizione, secondo la prassi dell’agenzia delle entrate, operazioni con caratteristiche analoghe a quella in esame.
In questa prospettiva la contestazione delle autorità muoverebbe dal presupposto che, in realtà, tra utenti e Meta si sarebbe realizzato uno scambio di servizi con obbligazioni reciproche dietro corrispettivo.
Parrebbe, infatti, che lo schema accusatorio teorizzi l’obbligo di cessione di beni immateriali (qualificabile come prestazione di servizio ai fini Iva) da parte degli utenti in favore di Meta a fronte dell’obbligo di questa di concedere in fruizione le piattaforme social.
Nella specie, i dati degli utenti rappresenterebbero il corrispettivo della prestazione di servizi effettuata da Meta.
Secondo la normativa Iva nazionale, tali operazioni dette permutative – cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate in corrispettivo di altre cessioni di beni o prestazioni di servizi – andrebbero assoggettate all’imposta separatamente da quelle in corrispondenza delle quali sono effettuate.
In altri termini, nelle operazioni permutative le due prestazioni (che compongono la permuta) devono essere considerate isolatamente (per esempio, due singole prestazioni di servizi) sebbene, nella specie la sola operazione assoggettabile a Iva risulterebbe essere quella effettuata da Meta agli utenti – per carenza, nell’altra operazione, del requisito soggettivo in capo agli utenti.
Ciò posto, l’elemento di novità in questo paradigma accusatorio attiene alla determinazione della base imponibile su cui calcolare l’imposta che, nel caso delle operazioni permutative, sarebbe costituita dal valore normale dei beni e dei servizi che formano oggetto di ciascuna di esse.
Per superare l’evidente impasse dell’identificazione del valore di questi dati, non quantificato né quantificabile nel momento in cui sono “affidati” dagli utenti a Meta, gli inquirenti si sarebbero verosimilmente basati su elementi economici non immediatamente disponibili ed esterni all’accordo utenti/Meta.
Sembrerebbe, infatti, che per definire l’ammontare dai dati assunti quale corrispettivo i verificatori ne abbiano considerato il valore (di mercato) desumibile dai proventi su di essi realizzati da Meta.
In concreto, quindi avrebbero ritenuto di poter “monetizzare” detti dati prendendo a riferimento l’ammontare che soggetti terzi sul mercato sono disposti a versare per poterne disporre.
Tale approccio accertativo, pur criticabile sotto varie angolazioni, avrebbe il pregio di essere conforme, oltreché all’indirizzo della prassi nazionale, altresì alla giurisprudenza che ha sancito la necessità che il corrispettivo sia espresso in denaro (come, Cgue Causa C-380/99) e che questo possa corrispondere all’impegno a eseguire una cessione di beni oppure una prestazione di servizi (Cass. n. 7947/2019).
Prime sintetiche riflessioni
In attesa che emergano ulteriori elementi sulla vicenda Meta, l’impressione è che l’indagine possa rappresentare il primo atto di un più ampio fenomeno investigativo su questi temi a carico delle big tech.
A questo stadio, si possono trarre almeno due macro-conclusioni:
- da un punto di vista “privacy” le società attive nel mercato digitale dovranno sicuramente porsi il tema relativo alla monetizzazione dei dati. Se questo concetto fosse effettivamente “sdoganato” vi potrebbe essere la necessità di un ripensamento globale dei loro modelli di business. Le piattaforme che intendono utilizzare dati personali degli utenti per fini di profilazione potrebbero dunque essere chiamate a proporre agli utenti stessi delle formule che consentano una valorizzazione dei loro personal data. Tale processo è già in corso. Ad esempio, in svariati paesi europei (tra cui l’Italia) le principali testate giornalistiche online hanno adottato, negli scorsi mesi, dei cosiddetti pay wall in cui chiedono esplicito consenso per utilizzo di cookie per finalità di profilazione. Nel caso in cui tale consenso non venga fornito, viene richiesto il pagamento di un abbonamento per la fruizione dei contenuti proposti sul web dalle testate stesse;
- da un punto di vista tributario, invece, questo nuovo paradigma accertativo aprirebbe, ove fosse ritenuto fondato, a indagini seriali e significative conseguenze nei confronti di gruppi che nel web operino in maniera analoga a Meta, per esempio offrendo servizi web in cambio di dati degli utenti. Va tuttavia rilevato come a un primo esame l’impianto accusatorio trapelato per sommi capi dal web parrebbe prestare il fianco a diverse possibili critiche sul piano tecnico.
Sulla scorta di queste preliminari considerazioni, appare altamente consigliabile, per i gruppi interessati da questioni analoghe e che trattano dati personali degli utenti per finalità di profilazione, svolgere un assesment delle attuali e potenziali esposizioni a rischi legati alla normativa privacy alla luce di questa nuova tendenza che attribuisce un valore economico ai personal data. Come abbiamo visto, tale valutazione dovrà necessariamente avere come campo di indagine principale anche le ricadute che potrebbero esservi in materia fiscale.
(Articolo scritto in collaborazione con Jacopo Piemonte, studio legale De Berti Jacchia Franchini Forlani)
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