Somel: “Il prossimo decennio rappresenta un periodo critico per ridurre le emissioni di gas serra e contenere l’aumento delle temperature globali a un livello che limiti l’impatto sugli ecosistemi e sulla salute. E gli investitori si stanno rendendo conto di questa sfida”
Luiten: “Solo il 17% del consumo totale di energia proviene da fonti sostenibili, ma l’economia dell’energia verde sta rapidamente guadagnando spazio, rendendo questa transizione più accessibile e aprendo enormi opportunità di crescita”
Nelle parole di Somel, invece, per riconoscere quali sono le aziende più virtuose, bisogna valutare il loro impatto in tre aree chiave. La prima è quella della generazione di elettricità, oggi responsabile delle maggiori emissioni di carbonio, considerando che l’energia pulita rappresenta “un’alternativa più economica rispetto ai combustibili fossili e più conveniente per il Pianeta”. La seconda area riguarda le aziende che forniscono soluzioni per l’affermazione di un’economia tech e green. Si tratta di settori come l’industria e il trasporto, che pesano per circa il 35% delle emissioni combinate. “Ciò include la mobilità elettrica e l’efficienza degli edifici”, continua Somel. Chiude il cerchio l’economia circolare, con l’eliminazione dei rifiuti e la valorizzazione di un sistema di riciclo a ciclo chiuso.
Certo, non mancano i rischi. A partire dal greenwashing, sia in termini di “singole aziende che cercano di attrarre investitori Esg (environmental, social, governance), sia in termini di fondi d’investimento che rivendicano un approccio sostenibile, ma non sempre ne sono all’altezza”, interviene Luiten. “Il nuovo regolamento Sfdr (Sustainable finance disclosure regulation) sta cercando di affrontare quest’ultimo aspetto, ma l’importanza di una ricerca fondamentale rigorosa e di un’analisi bottom-up non può essere sottovalutata. Un altro rischio è investire in aziende che non hanno ancora dimostrato di saper monetizzare i loro modelli di business”, argomenta il gestore.
Diverso l’approccio di M&G Investments: “Un modo per valutare se le aziende all’estremità alta della scala delle emissioni prendono sul serio questo problema è controllare la loro disponibilità a fissare obiettivi di riduzione delle emissioni in linea con l’Accordo di Parigi o allineati con la Science based target initiative”, spiega, ricordando come l’adozione delle linee guida stabilite dalla Taskforce for climate related financial disclosure rappresenti a sua volta un buon indicatore per verificare che le aziende siano realmente attrezzate per quantificare e mitigare questi rischi.
C’è però infine un altro gap da considerare, lato investitori. Secondo una recente indagine di Robeco che ha coinvolto 300 big investor istituzionali provenienti da Europa, Nord America e Asia Pacifico con masse in gestione sui 23.400 miliardi di dollari, sebbene il cambiamento climatico rappresenti una priorità nelle scelte d’investimento, solo il 17% è in grado oggi di incamminarsi verso questa direzione. Anche per una mancanza di competenze. “Per alcuni investitori, può essere difficile abbandonare l’approccio tradizionale di rapportare il rischio a un indice, dove i titoli della vecchia economia possono ancora avere un peso significativo. Inoltre, molti gestori mirano a ridurre l’impronta dei loro portafogli, mentre noi facciamo il passo successivo, puntando a evitare del tutto le emissioni di carbonio. Un’altra questione è la disponibilità e la qualità dei dati; ci vogliono molte risorse dedicate per scoprire opportunità veramente sostenibili e costruire un solido caso d’investimento. La responsabilità dei gestori è quella di selezionare i manager che hanno le competenze e l’esperienza per vedere il potenziale di una soluzione ambientale e separare i vincitori dai perdenti attraverso le catene di valore”, conclude Luiten.
Articolo tratto dal magazine We Wealth di luglio-agosto 2021