L’Istat ha certificato un nuovo minimo storico del tasso di fecondità (1,20 figli per donna) nel 2023. Per prima cosa, vediamo cosa si intende esattamente per tasso di fecondità (“Total Fertility Rate”): è il numero di figli per donna di età feconda (15-49) atteso per un dato anno. Se questo numero è 2 – si potrebbe pensare – i due figli sostituiscono il padre e la madre, e la popolazione si mantiene stabile, ma non è così. Il tasso di rimpiazzo è un po’ più di 2 – è il 2,1 nei Paesi avanzati – dato che bisogna tener conto di un certo numero di donne che decidono di – o non possono – avere figli. A livello mondiale il tasso di rimpiazzo è più alto, il 2,3: detto tasso è infatti calcolato nell’ipotesi che i tassi di mortalità rimangano costanti e che il tasso migratorio netto sia zero. Ma nei Paesi sottosviluppati il tasso di rimpiazzo può arrivare fino a 3,5 a causa di mortalità più elevata (specialmente mortalità infantile).
Per rendersi conto della portata del problema basta guardare a un semplice fatto: non c’è nessun Paese fra quelli avanzati che abbia un tasso di fecondità almeno eguale al tasso di rimpiazzo. Come si sa, molti Paesi europei, a partire dalla Francia e dalle socialdemocrazie scandinave, hanno forme di assistenza alle famiglie – a partire dagli asili nido – più evolute delle nostre. Ma questo vale solo a rosicchiare qualche decimale in più – rispetto all’Italia – nel tasso di fecondità. L’Occidente – e non solo – invecchia inesorabilmente. Bene, si dirà, questa “decrescita felice” della popolazione allevierà il sovraffollamento del pianeta. Ma il problema è che l’invecchiamento della popolazione causerà enormi problemi per le pensioni e per il rapporto fra attivi e inattivi: coloro che lavorano dovranno mantenere stuoli crescenti di persone anziane.
Le sfide socio-culturali e i rimedi
Allora, quali i rimedi? Non bastano asili nido e un sistema fiscale-contributivo-regolatorio-assistenziale che favorisca la famiglia più o meno nucleare. Ci sono ragioni socio-culturali che spiegano la scarsa voglia di avere figli.
Un tempo i figli erano un aiuto: servivano braccia per il lavoro nei campi. Ma oggi sono una benedizione sì, ma anche un onere. Le donne si affacciano in numeri crescenti sul mercato del lavoro e l’affermazione di sé non è più come madre e angelo del focolare, ma anche – e sempre più – come lavoratrice in carriera. C’è una correlazione (inversa) fra l’aumento del tasso di occupazione femminile e il tasso di fecondità, specie in Italia.
Se il fattore principale nella riduzione del tasso di fecondità sta in fattori socio-culturali, le misure di rimedio comunemente proposte non risolvono il problema di fondo. Certamente, favoriamo le famiglie, facciamo più asili nido (come stiamo facendo, specie al Sud, grazie al PNRR)… Ma non illudiamoci che questo basti a evitare l’invecchiamento e i problemi connessi. Il problema è specialmente acuto per l’Italia, dato che il nostro tasso di occupazione femminile, se pure in crescita, è a un livello molto più basso rispetto ad altri Paesi avanzati, e non potrà che migliorare ancora.
Abbiamo già detto che in Italia ci sono due giacimenti di crescita potenziale da sfruttare: il lavoro femminile e il Mezzogiorno. Quindi, bisogna stimolare l’occupazione femminile; ma così facendo, si stimolerà anche il ritardo nell’avere figli (dal 2000 ad oggi l’età media delle neo-puerpere è aumentata di due anni) con conseguente diminuzione del tasso di fecondità.
Il dilemma dell’Occidente in generale e dell’Italia in particolare circa l’invecchiamento e la denatalità può essere risolto solo aprendo le porte all’immigrazione: esattamente il problema che agita il tessuto sociale e politico delle società avanzate. Basti guardare alla cartina per rendersi conto di dov’è la soluzione all’invecchiamento. La sfida è enorme e passa per più immigrazione legale e maggiori investimenti nell’integrazione dei nuovi arrivati.