È un dato certo. Negli ultimi due anni il numero di matrimoni è crollato e non solo per effetto della pandemia. In una società in cui regna la convinzione che “il cambiamento è l’unica cosa permanente e che l’incertezza è l’unica certezza” (Zygmunt Bauman), sempre più coppie scelgono di convivere, e rimangono tali anche dopo essere diventati genitori. Nell’ultimo decennio, infatti, importanti interventi legislativi hanno dato un quadro giuridico più definito e una tutela più efficace alle coppie di fatto.
Ricordiamo tra le più importanti la L. 219/2012, una vera riforma sulla filiazione perché ha uniformato lo status di figlio eliminando ogni distinzione tra figli nati in costanza di matrimonio e figli nati da genitori non coniugati, e la Legge Cirinnà del 2016 che oltre alle unioni civili – oggetto di approfondimento del mio precedente articolo – ha disciplinato diritti e doveri delle coppie di fatto, eterosessuali ed omosessuali (art. 1 commi 36-65 L. 76/2016).
Nonostante il quadro normativo sia più completo, però, permangono importanti differenze sia rispetto alle unioni matrimoniali sia rispetto alle unioni civili, soprattutto in ambito patrimoniale e successorio.
Vediamole insieme.
La legge Cirinnà si applica a tutte le coppie – di diverso o stesso sesso – che hanno reso una dichiarazione di convivenza all’anagrafe civile del Comune di residenza con la quale la coppia si impegna a vivere nello stesso Comune e a coabitare nella stessa casa e chiede di voler risultare nel medesimo certificato di stato di famiglia.
Dalla convivenza registrata derivano i seguenti diritti:
- il diritto e dovere tra le due parti di assistenza morale e materiale;
- in caso di malattia e di ricovero, il diritto reciproco di visita, di assistenza, nonché di accesso alle informazioni personali, previste per coniugi e i familiari (art.1 comma 39);
- il diritto di designare l’altro convivente quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati, in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute oppure, in caso di morte, per quanto riguarda la donazione degli organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie (art. 1 commi 40 e 41);
- il diritto di successione nel contratto di locazione della casa di comune residenza in caso di morte del conduttore o di suo recesso dal contratto (art. 1 comma 44);
- il diritto a vedersi riconosciuto, in caso di decesso del convivente di fatto derivante da fatto illecito di un terzo, l’applicazione dei medesimi criteri individuati per il risarcimento del danno al coniuge superstite (art. 1 comma 49);
- il diritto a vedersi applicata la disciplina dell’impresa di famiglia.
La registrazione all’anagrafe, però, non ha alcun effetto in merito al regime patrimoniale della coppia. A differenza del matrimonio e dell’unione civile, infatti, i conviventi potranno adottare un regime patrimoniale dei loro beni solo stipulando un contratto di convivenza.
Tramite la sottoscrizione del contratto di convivenza, formalizzato con atto pubblico notarile o con scrittura privata autenticata, la coppia potrà scegliere il regime patrimoniale di comunione dei beni indicando anche a quali beni intendono adottarlo, e la modalità con le quali ciascuna parte contribuirà alla famiglia.
Il contratto di convivenza, inoltre, potrà contenere anche patti di fine convivenza, vale e dire delle disposizioni da rispettare in caso di scioglimento della coppia. Tale ultima disposizione risulta essere molto particolare se si pensa che ad oggi i patti prematrimoniali non sono riconosciuti, mentre il contratto di convivenza può prevedere le modalità di una futura “separazione”.
Ma se la coppia non ha sottoscritto alcun contratto di convivenza cosa succede in caso di crisi della coppia ?
Se in merito alla gestione della responsabilità genitoriale non vi sono differenze rispetto alle coppie matrimoniali – la Riforma Cartabia ha previsto anche la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita – in merito al diritto del convivente “debole” a vedersi riconosciuto un contributo in denaro permane una grande differenza: il convivente, infatti, non ha diritto a ricevere un assegno di mantenimento ma – solo se si trova in stato di necessità e non sia in grado di provvedere da solo al soddisfacimento dei propri bisogni primari – può chiedere all’Autorità Giudiziaria un assegno alimentare per un tempo da stabilirsi in misura proporzionale alla durata della convivenza.
In merito invece all’ammontare di tale contributo alimentare il Giudice dovrà fare riferimento all’art. 438 cc ed in particolare, l’importo verrà stabilito tenendo conto dell’effettivo bisogno della parte richiedente, delle di lui condizioni economiche nonché delle condizioni economiche dell’onerato.
Anche per quanto riguarda l’aspetto successorio il convivente è in una situazione di poca tutela: il convivente non rientra tra gli eredi legittimari ossia tra quelli a cui la legge riserva una quota minima sul patrimonio del defunto e, pertanto, sarà necessario redigere testamento per istituirlo erede o legatario sempre nei limiti della quota disponibile.
La legge Cirinnà, infatti, ha previsto solo una tutela con riguardo alla casa adibita a residenza familiare garantendo al convivente superstite la possibilità di continuare ad abitarci per due anni o per un periodo uguale alla durata della convivenza se superiore a due anni ma in ogni caso non più di 5 anni. Nel caso in cui con il convivente superstite convivano figli minori o disabili questi possono rimanerci per altri tre anni. Infine, nel caso di contratto di locazione, il convivente in vita può succedere nel contratto stipulato dal de cuius.