«Ho sempre lavorato come adesso, ma non lo si vedeva, perché era il momento dell’astrazione. Solo ora, grazie alla Pop Art, la mia pittura e? diventata comprensibile». Le parole sono di Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970), artista ancora poco presente nelle collezioni private. Ma c’è da scommettere che la situazione cambierà: il pittore è infatti protagonista di una interessante monografica alla Fondazione Prada di Milano, inaugurata il 27 ottobre 2021 e aperta fino al 27 febbraio 2022. Una delle preziose eredità di Germano Celant (1940 – 2020), che tanto aveva lavorato all’esposizione di questo artista difficilmente incasellabile in correnti prestabilite: minimale, pop, iper reale. Impassibile e ineloquente, lo definisce il curatore Salvatore Settis, negatore della decorazione mediante l’esplorazione del dettaglio.
Scenografo di fama internazionale, disegnatore di costumi e illustratore, dal 1959 vive tra Roma e New York (con puntate a Parigi e Londra), dove espone in diverse gallerie e lavora come illustratore, per poi stabilirsi dal 1963 a Deia? nell’isola di Maiorca. Gnoli era figlio e nipote di due storici e critici dell’arte, Umberto e Domenico, da cui gli derivano le lezioni rigorose di Masaccio e Piero della Francesca. E di Piranesi, de Chirico, Carra?, Severini, Campigli.

Ma il suo lavoro può considerarsi influenzato anche da artisti contemporanei come Bacon, Balthus, Dali?, Magritte, Shahn e Sutherland. «Mi servo sempre di elementi dati e semplici, non voglio aggiungere o sottrarre nulla. Non ho neppure avuto mai voglia di deformare: io isolo e rappresento. I miei temi derivano dall’attualità, dalle situazioni familiari della vita quotidiana; dal momento che non intervengo mai attivamente contro l’oggetto, posso avvertire la magia della sua presenza».

La sua traiettoria di artista incrocia i percorsi del minimalismo, dell’iperrealismo e della pop art, anche se, come ha osservato lo scrittore francese Andre? Pieyre de Mandiargues, «lo stile pittorico di Gnoli nel momento stesso in cui descrive le cose banali che compongono l’ambiente dell’uomo, le illumina. Illustrandole le nobilita; mentre gli artisti pop le volgarizzano».

La sua pittura precisa e materica – fotografica – esalta superfici, colori e materiali dell’inorganico. Il suo è un approccio documentario che «mette sullo stesso piano tutte le cose, naturali e artificiali, esprimendo una volontà egualitaria con la rivincita degli elementi insignificanti e squalificati dalla classifica dei valori: il basso e il secondario, l’accessorio e il trascurabile», come osservava Germano Celant. Busti, capigliature, scarpe, poltrone, cassetti, cravatte, bottoni, colletti sono soggetti enigmatici, che stimolano la fantasia e la curiosità di chi osserva, al centro di «un teatro sensuale e carnale dove si attua il continuo scambio tra le cose e i corpi, protagonisti di una complicità totale», concludeva il critico.

Cento le opere esposte, realizzate dall’artista dal 1949 al 1969. Questa retrospettiva si inserisce in una sequenza di mostre di ricerca che Fondazione Prada ha dedicato a figure di talenti fuori dagli schemi come Edward Kienholz, Leon Golub e William Copley, difficilmente assimilabili alle correnti artistiche della seconda meta? del Novecento.

«Ho sempre lavorato come adesso, ma non lo si vedeva, perché era il momento dell’astrazione. Solo ora, grazie alla Pop Art, la mia pittura e? diventata comprensibile». Le parole sono di Domenico Gnoli (Roma, 1933 – New York, 1970), artista ancora poco presente nelle collezioni private. Ma c’è da sc…