In Italia i paletti sono più stringenti: il prospetto informativo dei fondi comuni aperti deve includere nel caso di modifica di benchmark, anche il confronto sia con il vecchio indice
Il professor Andrea Rossi (university of Arizona): “Il nostro studio ha rivelato un problema più serio e più comune di quanto si pensasse”
Cambiare l’indice di riferimento, oggi, per migliorare il confronto fra gestore e benchmark anche nel passato. E’ una pratica che le regole statunitensi consentono è che avevamo raccontato in questo articolo ispirato a un recente studio dell’Università dell’Arizona. Data la sensibilità del tema (si paga il gestore per battere il benchmark, quindi la trasparenza è fondamentale) abbiamo raggiunto, per qualche retroscena in più, il co-autore del paper, Andrea Rossi, Assistant Professor of Finance presso l’Eller College of Management dell’università dell’Arizona.
In precedenza, però, abbiamo contattato la Consob per ottenere la più precisa risposta possibile su cosa sia consentito fare con i benchmark in Italia. Cambiare l’indice di riferimento di un fondo è consentito anche da noi, ma con paletti più stringenti rispetto a quelli richiesti dalla Sec, “volti ad evitare i comportamenti opportunistici esemplificati nell’articolo citato”, ha affermato l’Autorità via email. In base al Regolamento Emittenti della CONSOB “il benchmark deve risultare coerente con i rischi connessi con la politica di investimento del fondo”. Non solo: “La parte II del prospetto informativo dei fondi comuni aperti include… nel caso di modifica di benchmark… il confronto sia con il vecchio benchmark che con il nuovo benchmark”.
La regolamentazione italiana, più stringente rispetto a quella della Sec, e “volta ad evitare comportamenti opportunistici”, non può che far riflettere sull’importanza delle autorità nella tutela della trasparenza in materia finanziaria. Lo studio del professor Rossi, infatti, documenta numericamente come in materia di costi e rappresentazione delle performance i gestori e i loro clienti presentino interessi contrapposti. E in assenza di regole appropriate, si tira l’acqua al proprio mulino.
Professor Rossi, non solo gli investitori, ma anche i ricercatori accademici hanno spesso dato per scontato che il cambio del benchmark fosse una rarità tra i fondi azionari. Cosa vi ha fatto pensare che ci fosse un’evidenza interessante dietro a questa pratica?
Studi esistenti (sia studi indipendenti di ricercatori universitari, sia studi più limitati fatti da società private) avevano in precedenza riportato che occasionalmente alcuni fondi cambiano i benchmarks del prospetto. Però mancava fino ad ora uno studio sistematico della questione. E, cosa più importante, non era chiaro se nel caso di cambio di benchmark venisse cambiato solo il ritorno del benchmark futuro, o anche quello relativo al passato. Dato che le leggi che regolano la materia non sono molto chiare e sembrano lasciare aperta la porta a potenziali manipolazioni, ancora prima di vedere i dati ci aspettavamo di trovare qualcosa di interessante. Del resto, stiamo parlando di Wall Street… si sa che vengono spesso utilizzate pratiche di marketing molto aggressive e ogni tanto qualche gestore viene beccato a fare qualcosa al limite del legale.
Leggendo il vostro studio appare chiaro come la sostituzione del benchmark avvenga con grande prevalenza in modo da migliorare il confronto indice-gestore, in favore di quest’ultimo. Cosa vi fa affermare con così grande sicurezza che non può essere frutto del caso?
Avendo a disposizione quasi 2.000 casi da analizzare, i test statistici non lasciano spazio a dubbi, la maggioranza dei casi sono favorevoli ai gestori, e la probabilità che si tratti di un caso è a tutti gli effetti pari a zero. Tengo a precisare che in solo circa la metà dei casi osserviamo sostituzioni complete del benchmark. Gli altri casi si dividono in due categorie: fondi che aggiungono nuovi benchmark senza eliminare quello che riportavano in precedenza, oppure fondi che inizialmente riportano due o più benchmark e poi ne eliminano uno senza rimpiazzarlo con uno nuovo. In tutti questi casi, i cambiamenti che vengono fatti sono in media favorevoli al gestore. Detto questo, è anche chiaro che non tutti i cambiamenti sono fatti per tentare di abbellire la performance passata. Alcuni dei test che abbiamo fatto indicano che in alcuni casi il benchmark che viene aggiunto ha una correlazione col ritorno del fondo più alta rispetto a quella del benchmark iniziale.
Faccio notare che le due motivazioni per fare dei cambiamenti ai benchmark non sono mutualmente esclusive: per esempio, supponiamo che io gestisca un fondo che investe prevalentemente in azioni small-cap, ma al momento il mio benchmark è un indice large-cap generico tipo S&P 500 (questa situazione è abbastanza comune). Se per un certo periodo le azioni large-cap fanno molto meglio di quelle di aziende piccole, dopo quel periodo mi potrebbe convenire aggiungere un confronto con un indice small-cap dato che avrebbe un ritorno passato meno performante (e magari eliminare l’S&P 500 allo stesso tempo). Questa azione potrebbe essere giustificata dicendo che il fondo investe prevalentemente in azioni di aziende small-cap, il che sarebbe vero, ma allo stesso tempo mi è anche conveniente.
Crede che i dati forniti da Morningstar, da voi citata come fonte autorevole di informazione, dovrebbero consentire un più chiaro riconoscimento dei cambi nel benchmark?
Rispondo un due parti. Purtroppo il database di Morningstar riporta solo il benchmark attualmente dichiarato, e non è possibile accedere alla serie storica dei benchmark. Proprio per questo fino ad ora si sapeva poco sulla questione dei cambiamenti di benchmark. Per questo motivo, per fare questo studio ci siamo dovuti ricostruire la serie storica dei benchmark dichiarati dai fondi nei prospetti ufficiali anno dopo anno. Per fare questo, con l’aiuto del co-autore della ricerca che è un esperto di data-scraping, abbiamo scaricato ed estratto le informazioni da tutti i prospetti di fondi comuni registrati con la Security and Exchange Commission (l’equivalente americana della Consob) a partire dal 2006.
Un elemento interessante della ricerca è costituito anche dal confronto non solo fra i benchmark selezionati dai fondi, ma anche anche fra quelli che sarebbe appropriato scegliere e, invece, esclusi. Da questo secondo esercizio quali conclusioni possiamo trarre sui criteri che guidano la scelta degli indici di riferimento?
Grazie alle analisi fatte in precedenza, si sapeva già che ci sono molti fondi che si specializzano il nicchie di azioni, ma paragonano il proprio ritorno a quello di indici più generici e sotto molti aspetti non appropriati. Per esempio, Morningstar è al corrente di questo problema e cerca di tenerne conto. A partire dal giugno 2002, se un fondo americano vuole farsi dare un rating da Morningstar, il fondo deve mandare a Morningstar la lista completa degli investimenti che ha in portafoglio almeno ogni tre mesi. Morningstar poi utilizza queste informazioni per mettere i fondi in varie categorie (small-cap-value, per esempio) e paragona i ritorni dei fondi all’interno di ogni categoria per poi dare delle raccomandazioni. I famosi rating con le 5 stelle sono assegnati così, per esempio. Altre società di rating e analisi, come Lipper, utilizzano procedure simili.
Il problema della sovraperformance è cruciale nella scelta dei gestori “attivi” più abili: se battono il mercato, esiste un interesse a pagare un costo aggiuntivo. Quanto rilievo può avere, negli Usa, questo cherry picking degli indici di riferimento nel confondere un po’ le valutazioni? Mi spiego meglio: reputa che le percentuali di miglioramento dovute al cambio degli indici siano tali da giustificare un’influenza sui flussi di capitale ricevuti dai fondi?
Sapendo che i paragoni ritorni-indice sono spesso poco informativi o che addirittura possono essere manipolati, i flussi di capitale che sembrano seguire questi paragoni non sembrano molto giustificati. Per capire perché questo può succedere, bisogna comprendere il mercato dei fondi statunitensi: si tratta di un mercato con migliaia di miliardi di dollari in gestione, con una decina di migliaia di fondi minimo, e flussi mensili miliardari tra questi fondi. Per via dell’organizzazione del sistema di risparmio e pensione americano, molte scelte di investimento sono lasciate all’individuo, e infatti più del 50% della popolazione ha risparmi in qualche tipo di fondo comune. Per cui stiamo parlando di un mercato enorme e con molti clienti con scarsa competenza finanziaria. Molti di questi investitori continuano a spostare i propri soldi da un fondo a un altro, spesso basandosi su marketing poco serio. Inoltre, ci sono molti financial planners che hanno conflitti di interesse per via del sistema delle commissioni di vendita. Non a caso, la nostra analisi rivela che i fondi che hanno commissioni di vendita più alte hanno una probabilità più alta di essere tra quelli che fanno cambiamenti ai propri benchmark.
Avete presentato il vostro studio anche a Londra: ci può dire quali riscontri avete avuto dai vostri colleghi?
Si, stiamo presentando lo studio ad alcune conferenze proprio per ricevere feedback da altri ricercatori. Il consenso è che effettivamente il nostro studio ha rivelato un problema più serio e più comune di quanto si pensasse. La discussione si è poi in parte focalizzata su quali cambiamenti alle regole si possano implementare. L’obiettivo sarebbe di eliminare l’opportunità di cambiare “il passato”, ma allo stesso tempo lasciando spazio ai fondi che fanno cambiamenti di benchmark per motivi legittimi di continuare a farlo. Bisogna trovare un giusto equilibrio.