Un recente studio condotto dall’Università dell’Arizona, infatti, ha messo in luce come i fondi approfittino di una falla nella regolamentazione Usa che consente loro di cambiare l’indice di riferimento nel corso dell’esistenza del fondo stesso
“I fondi con commissioni elevate, i fondi venduti da intermediari e i fondi che registrano una scarsa performance e uscite sono più propensi a mettere in atto questo comportamento”, affermano gli autori
Una delle più abusate citazioni orwelliane potrebbe descrivere in modo abbastanza accurato anche il comportamento di alcuni fondi d’investimento americani: chi controlla il passato, controlla anche il futuro. Un recente studio condotto dall’Università dell’Arizona, infatti, ha messo in luce come i fondi approfittino di una falla nella regolamentazione Usa che consente loro di cambiare l’indice di riferimento nel corso dell’esistenza del fondo stesso. In questo modo, le performance del passato possono essere artificialmente migliorate scambiando il benchmark originario con un altro che abbia performato meno bene. Si ottiene una miglior figura per i gestori del fondo e una maggiore attrattiva per i nuovi clienti, benché, come è d’obbligo specificare, “le performance del passato non sono indicative di quelle future”. Ad ogni buon conto, aiutano.
In questo studio “analizziamo le variazioni dei benchmark autodichiarati dai fondi comuni di investimento utilizzando dati raccolti a mano dai prospetti informativi dei fondi”, si legge nel documento, “in base alle norme vigenti, i fondi possono modificare liberamente i loro indici di riferimento e, implicitamente, i rendimenti storici con cui confrontano i loro risultati passati”. Secondo quanto emerso dall’analisi “i fondi sfruttano questa scappatoia aggiungendo (eliminando) indici con rendimenti passati più bassi migliorando così in modo sostanziale l’apparenza dei loro rendimenti benchmark”.
“I fondi con commissioni elevate, i fondi venduti da intermediari e i fondi che registrano una scarsa performance e uscite sono più propensi a mettere in atto questo comportamento”, proseguono gli autori, “questi fondi successivamente attirano ulteriori flussi di capitale nonostante continuino a sottoperformare i fondi a loro comparabili”.
Battere il benchmark, per i fondi a gestione attiva, è una questione fondamentale per guadagnare attrattiva, dal momento che debbono giustificare i maggiori costi applicati sui risparmiatori. I professionisti percepiscono un pagamento per registrare rendimenti superiori ai fondi di riferimento designati nel prospetto informativo: per questo cambiarli in corso d’opera, se fatto per migliorare i risultati “storici”, è un’operazione particolarmente discutibile. Secondo precedenti studi citati dagli autori, infatti, le performance del passato influenzano i comportamenti e le scelte degli investitori quando si tratta di selezionare i fondi.
Il confronto con il benchmark dovrebbe essere indicativo delle abilità dei gestori e aiutare il risparmiatore nella scelta. “Alla luce di questa logica, è forse sorprendente che le norme consentano ai fondi di aggiungere e rimuovere indici di riferimento con poche giustificazioni e non si vieti loro di confrontare i rendimenti passati con quelli degli indici scelti più di recente piuttosto che con i rendimenti degli indici selezionati al momento della generazione dei rendimenti”, hanno affermato gli autori, per i quali questa falla nella regolamentazione offre un’occasione per “manipolare le performance semplicemente cambiando l’indice di riferimento”.
Cambiare benchmark: gli effetti nella pratica
Non sempre il benchmark cambia solo e soltando per rinverdire i rendimenti storici, ma è un dato di fatto come questa operazione avvenga con una certa frequenza, quantomeno negli Usa. Il 36,5% dei 2.870 fondi analizzati ha modificato l’indice di riferimento nel prospetto almeno una volta fra il 2006 e il 2018. In questo periodo i fondi che hanno cambiato benchmark l’hanno fatto in media 2,27 volte. Mediamente, ogni anno cambia indice di riferimento il 6,85% dei fondi d’investimento americani.
Gli autori hanno calcolato che una percentuale statisticamente significativa dei cambi produce il seguente risultato: il nuovo benchmark ha perfomance passate peggiori del precedente, con l’effetto collaterale di migliorare i rendimenti del fondo in rapporto a quelli dell’indice di riferimento. Nel dettaglio, i fondi aggiungono indici che in media hanno ritorni inferiori del 2,39% rispetto all’indice precedente in un orizzonte quinquennale – e inferiori del 5,56% con quelli dell’indice che meglio rifletterebbe la strategia del fondo. Insomma, nella maggioranza dei casi (fino al 66%) quando un indice di riferimento cambia, lo fa a vantaggio del gestore e del suo “track record” nei confronti del nuovo benchmark designato. Le probabilità che questo avvenga per caso, da un punto di vista statistico, sono “praticamente pari a zero” hanno affermato gli autori.