Dall’inizio dell’anno l’umore degli investitori sembra essersi rasserenato. L’S&P 500, all’8 febbraio, ha guadagnato il 7,68% tornando ai livelli di fine agosto. Il divario di rendimento fra i junk bond americani e i Buoni del Tesoro Usa è sceso sotto i 4 i punti, ai minimi da aprile. Inoltre, ha rilevato Bloomberg, le scommesse ribassiste degli investitori si sono ridotte di 300 miliardi di dollari tornando su livelli prossimi alla media storica. La virata “neutrale” nell’orientamento del mercato è arrivata dopo alcune notizie migliori del previsto sullo stato di salute dell’economia americana, sulla riduzione dell’inflazione e, in modo ancor più determinante, dopo il riconoscimento di questi miglioramenti da parte della Federal Reserve.
Alcuni degli altri fattori che hanno contribuito a migliorare le aspettative degli investitori sono stati “un dollaro più debole, la riapertura dell’economia cinese in concomitanza alla fine della politica Zero-Covid, l’allentamento delle restrizioni della catena di approvvigionamento e il calo dei prezzi dell’energia, soprattutto in Europa, che ha dato ampio respiro alle aziende”, ha ricordato in un nuovo rapporto Carlo De Luca e Alessio Garzone, rispettivamente responsabile asset management e analista di Gamma Capital Markets.
Quella speranza nel taglio dei tassi
In previsione di un abbassamento deciso dell’inflazione americana, il mercato ha iniziato a scommettere un taglio dei tassi da parte della Fed entro il 2023, non molto tempo dopo la fine del ciclo di rialzi ancora in atto. “Ritengo che ci sia una forte probabilità di assistere a tagli dei tassi nel corso dell’anno”, ha dichiarato a We Wealth l’analista senior di Oanda, Craig Erlam, “l’inflazione sta già scendendo più rapidamente del previsto e l’economia avrà probabilmente bisogno di una spinta”. Si tratta, però, di una previsione avvolta ancora da molte incognite: “Non sono sicuro che ci sia qualcosa di inevitabile in questo momento, ci sono state sorprese dietro ogni angolo”, ha aggiunto Erlam, “ma un taglio dei tassi nel corso dell’anno non mi sembra lontanamente inverosimile, anzi, il contrario”.
Secondo le previsioni del CME Group, riportate da De Luca, “i tagli previsti entro la fine del 2023 sono due, che porterebbero il tasso terminale, alla fine del 2023, al 4,50%-4,75%“, dopo il raggiungimento del picco al 5-2,55%.
La Federal Reserve è in attesa di segnali più chiari sull’evoluzione dei prezzi. Infatti, la componente che attualmente è già in fase di deciso ribasso è quella dei prodotti energetici: a dicembre l’indice dell’energia si è contratto del 4,5% rispetto al mese precedente, contribuendo al -0,1% osservato sull’inflazione al consumo generale (headline). Il dato di fondo, l’andamento dei prezzi esclusi gli alimenti e i prodotti energetici ha proseguito in aumento dello 0,3%.
I servizi, in particolare, sono diventati più cari dello 0,5% e i costi abitativi dello 0,8%, rispetto al mese precedente. Si tratta di componenti considerate più viscose, ossia che fanno riferimento a beni e servizi che difficilmente tornano più economici una volta che sono saliti di prezzo. Il presidente della Fed, Jerome Powell, ha sottolineato nell’ultima conferenza stampa come esistano varie componenti del paniere che ancora non mostrano segni di disinflazione (come i servizi e gli affitti); tuttavia, gli investitori, con una nuova ondata di acquisti, hanno dato più peso all’ipotesi che la banca centrale si stia ormai preparando a fermare i rialzi, dopo una o due riunioni.
Se l’inflazione Usa prende una piega diversa
“E’ evidente che un calo” dei costi abitativi “gioverebbe sull’intero indice dei prezzi al consumo; in caso di continui aumenti, invece, la Fed sarà costretta ad essere più aggressiva mantenendo i tassi alti per un periodo più lungo di tempo, forse anche più lungo di quanto viene prezzato attualmente dai mercati oppure continuando ad alzarli”, ha affermato De Luca.
Inoltre, la disoccupazione americana è tornata a scendere a un minimo del 3,4% il rischio è che, tolta buona parte dei rincari energetici, l’inflazione continuerà a crescere più di quanto la Fed si aspetta. Se la recessione dovesse rivelarsi più blanda del previsto e i prezzi si mantenessero più elevati per la Fed sarebbe difficile “esaudire” i desideri degli investitori sul futuro taglio. Anzi, una minoranza consistente dei trader ha prezzato un tasso terminale al 6%, ossia 1,4 punti più elevato rispetto ai livelli attuali e circa un punto più su rispetto alle attese della maggioranza degli economisti. A moderare il rischio di una forte spinta inflattiva è che gli aumenti salariali osservati negli Stati Uniti finora sono stati sotto controllo (assai inferiori all’inflazione) e si muovono verso un rallentamento: la retribuzione oraria media è crescita del 4,4% a gennaio, in calo dal +4,8% di dicembre.
L’ipotesi che l’inflazione non scenderà del tutto, anche a causa di una grande forza contrattuale da parte dei lavoratori, favorita dalla bassa disoccupazione ha spinto lo strategist di JPMorgan, Marko Kolanovic, “suggerire una riduzione dell’esposizione” all’azionario, approfittando dei rialzi registrati sin qui. Questa visione sarebbe coerente con una Fed impossibilitata a tagliare i tassi, in un contesto di disinflazione più debole del previsto. Un altro elemento che rimane oggetto di incertezza fra gli analisti riguarda l’eventuale arrivo della recessione: “Se la dura stretta monetaria vista nell’ultimo anno portasse davvero gli Stati Uniti a scivolare in recessione”, avevano scritto il 3 febbraio gli analisti di Bank of America, riteniamo improbabile che il mercato possa evitare un forte ribasso”.