Dal 1978, anno della politica della porta aperta di Deng Xiaoping, l’economia dell’ex Celeste impero è cresciuta di 170 volte
Dal momento in cui ha deciso di aprirsi al mondo, il Paese di Mezzo «ha individuato nelle infrastrutture il sostegno duraturo della sua crescita»
La disuguaglianza reddituale in Cina sta crescendo. «Non è imputabile tuttavia ad aspetti politici, quanto alla vorticosa crescita che ha vissuto il paese. Alcune zone sono rimaste fisiologicamente indietro»
La la questione più scottante al momento resta quella di Taiwan. Rischia di essere una “pistola di Sarajevo”. Per gli Usa, premere troppo l’acceleratore sui rapporti con Taiwan potrebbe costituire un punto di non ritorno
Come osservato, la disuguaglianza reddituale in Cina sta crescendo (l’indice di Gini supera i 70 punti). «Non è imputabile tuttavia ad aspetti politici, quanto alla vorticosa crescita che ha vissuto il paese. Alcune zone rurali sono rimaste fisiologicamente indietro», prosegue Noci. Certo, si tratta di una tematica che va risolta. Come quella demografica. «Nel 2030 un terzo dei cinesi avrà oltre 60 anni». In uno stato in cui le donne vanno in pensione a 50, e gli uomini a 60 anni, ciò rappresenta una miccia drammatica alla sostenibilità del quasi inesistente sistema di welfare. La recente abolizione della restrizione demografica non sarà certo in grado di invertire la propensione della popolazione a non fare figli.
Diretta conseguenza di questa arretratezza è che l’incidenza del pil sulla domanda interna è molto bassa: solo il 40%. In Italia è il 70%. «Sia perché ci sono ancora molte famiglie povere, sia perché la propensione al risparmio è molto elevata proprio in previsione della terza e quarta età». Il partito comunista cinese dovrà essere in grado di riuscire a vincere queste sfide, altrimenti «verrà meno il patto fra esso e popolazione». Intanto il popolo cinese accetta una mancanza di democrazia (che non ha mai conosciuto) perché il Pcc ha mandato di promuovere il benessere nazionale.
Nel discorso ufficiale del 1° luglio in piazza Tienanmen, il presidente Xi Jinping ha ribadito che per Hong Kong e Macao Pechino implementerà il principio «uno Stato, due sistemi». Ma si tratta di proclama teorico. «Il pugno di ferro su Hong Kong è condizione necessaria per la sopravvivenza stessa del partito». Mollare la presa su Hong Kong significa mettere a forte rischio di balcanizzazione un paese con 100 etnie e un miliardo di persone. «Si aprirebbero fronti interni ovunque». Quello di Gorbaciov, per la Cina, è esempio negativo: in Russia la democrazia è durata pochissimi anni, poi la miseria ha riportato in auge un sistema non democratico.
Ma la questione più scottante al momento resta quella di Taiwan. La sua evoluzione «dipenderà molto da quello che farà Biden. Premere troppo l’acceleratore sui rapporti con Taiwan potrebbe costituire un punto di non ritorno. È la pistola di Sarajevo». Perché, se dovesse scoppiare una guerra, «non si tratterebbe solo di un conflitto sino-americano, ma di tenore mondiale». Arrivare a uno scontro muscolare con la Cina potrebbe rivelarsi una sciocchezza letale: 1/3 della crescita del mondo dipende dal Dragone. «Gli americani devono essere molto equilibrati nelle loro mosse», di qui in poi. E l’Europa? Per dirla come il Manzoni, «è il vaso di coccio in mezzo a due vasi di ferro. Rischia di uscire spappolata dalle tensioni fra Cina e Stati Uniti». Il vero banco di prova della tenuta dell’Ue è allora il rapporto con la Cina, più che la gestione del recovery fund? «Assolutamente sì».