Svolta green e stangata immobiliare: ecco come si muove la Ue

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I costi (non molto) occulti della rivoluzione green. Le misure in cantiere della Ue che vanno a penalizzare la vendita e l’affitto di immobili che non superano una certa soglia di classe di risparmio energetico

Fino ad oggi, l’attestato di prestazione energetica (in gergo, l’Ape) era nulla più che un dettaglio, nel contesto di una compravendita o di una locazione immobiliare. La legge, infatti, subordina la possibilità di vendere o affittare un immobile alla presenza di questo certificato che, in buona sostanza, classifica un immobile in una fra 10 classi energetiche (A1, A2, A3, A4, B, C, D, E, F e G), in ordine decrescente di efficienza energetica, ma non impone alcuna restrizione per gli immobili di classe più bassa.

Tutto ciò potrebbe cambiare con la revisione della direttiva europea Epbd (Energy performance of buildings directive). La bozza di direttiva sembrava, infatti, prevedere il divieto di vendere o locare immobili classificati nelle ultime, più basse, classi energetiche. Tuttavia, in base alle ultime dichiarazioni rilasciate da Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, sembrerebbe che non ci saranno divieti, ma che la proposta lasci agli Stati Membri la libertà di decidere come far rispettare lo standard minimo.

La bozza di direttiva

La direttiva prevederebbe standard minimi di prestazione energetica degli edifici: si chiede che il 15% del patrimonio edilizio a prestazioni energetiche peggiori di ciascuno Stato sia portato dal grado G dell’attestato di prestazione almeno al grado F entro il 2027 per edifici non residenziali e entro il 2030 per i residenziali. La ristrutturazione si applicherebbe a 30 milioni di unità.

Per le nuove costruzioni si introdurrebbe invece l’obbligo di emissioni zero già dal 2030, anticipato al 2027 per gli edifici pubblici.

Inoltre, sarebbero vietati gli incentivi statali per l’acquisto e l’installazione di caldaie a condensazione e verrebbero introdotti requisiti più stringenti per l’ottenimento dell’Ape che, fra l’altro, diventerebbe obbligatorio non solo nel caso di compravendita o locazione, ma anche nel caso di rinnovo della locazione.

D’altro canto, la bozza prevede anche il ricorso a incentivi che possono essere disposti dagli Stati membri per sostenere lo sforzo di riqualificazione energetica. In particolare, come anche riportato dal Corriere.it, è previsto che gli Stati membri potranno fornire strumenti finanziari e incentivi al fine di “affrontare le barriere di mercato e stimolare gli investimenti necessari al rinnovamento energetico in linea con il loro piano nazionale di rinnovamento degli edifici”. Gli Stati membri potranno intervenire in modo opportuno a livello regolamentare e sarà consentito il ricorso agli strumenti del Recovery plan (di cui si è parlato altrove in questa rubrica), del Social climate fund, i fondi per le politiche di coesione e il programma InvestEu, oltre che introdurre finanziamenti di scopo. L’Ue metterà a disposizione 150 miliardi di euro da qui al 2030.

L’impatto sul residenziale

Stando alle analisi riportate dalla stampa e ai dati che Enea – Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile mette annualmente a disposizione (qui riferiti agli attestati di prestazione energetica emessi nel quinquennio 2016-2020 in relazione a immobili residenziali di qualsiasi anno di costruzione, appartenenti a qualunque zona climatica e per qualsiasi motivazione), risulta che l’86,8% degli Ape analizzati è relativo a immobili appartenenti alla classe D o peggiore (il 36,3% in classe G, il 24,5% in classe F, il 16,2% in classe E e il 9,8% in classe D).
Solo il rimanente 13,2% appartiene alle classi dalla A1-A4 alla C (cioè, le classi cui, a tendere, dovranno classificarsi gli immobili, per poter essere compravenduti o locati) e, in particolare, il 4,2% in classe C, il 2,3% in classe B, il 2% in classe A1, l’1,7% in classe A2, l’1,5% in classe A3 e l’1,5% in classe A4;

Se si guarda all’anno di costruzione, si vede che gli immobili più vecchi sono quelli messi peggio circa l’efficienza energetica. Infatti, se si conduce una ricerca per anno di costruzione, risulta che:

  • per gli Ape richiesti in relazione a edifici costruiti dopo il 2015, la percentuale di immobili appartenenti alla classe D o peggiore è del 14,1%;
  • per gli Ape richiesti in relazione a edifici costruiti nel periodo 2006-2015, la percentuale di classe D o peggiore è del 53%;
  • per gli Ape richiesti in relazione a edifici costruiti nel periodo 1992-2005, la percentuale di classe D o peggiore è dell’88,8%;
  • per gli Ape richiesti in relazione a edifici costruiti nel periodo 1973-1991, la percentuale di classe D o peggiore è del 93,7%;
  • per gli Ape richiesti in relazione a edifici costruiti nel periodo 1945-1972, la percentuale di classe D o peggiore è del 94,8;
  • per gli Ape richiesti in relazione a edifici costruiti prima del 1945, la percentuale di classe D o peggiore è del 94,1;
  • all’aumentare dell’età dell’immobile, si può notare uno spostamento significativo verso le classi energetiche peggiori, con un incremento significativo di quelli collocati in classe G, che passano dal 4,3% per quelli costruiti dopo il 2015 al 51,9% di quelli costruiti prima del 1945.

Ora, è chiaro che si proiettano i dati di cui sopra (riferiti agli Ape richiesti dal 2016 al 2020) all’intera popolazione degli immobili residenziali italiani (circa 35 milioni di unità, secondo le statistiche catastali), si può stimare in circa 30,4 milioni il numero di quelli in classe D o peggiore, di cui 12,8 milioni in classe G (per i quali l’investimento necessario per portarli in classe C sarebbe molto oneroso) e 8,5 milioni, 5,7 milioni e 3,4 milioni rispettivamente in classe F, E e D (per i quali l’investimento potrebbe essere via via più contenuto).

Naturalmente, le statistiche vanno sempre prese con le pinze, tuttavia la dimensione di questi numeri è impressionante ed è difficile pensare che, senza uno stimolo esterno, il sistema riesca, da solo, a sostenere lo sforzo di efficientamento energetico richiesto dalla bozza di revisione della direttiva.

È vero che la bozza autorizza gli Stati membri a trarre risorse dai piani di aiuto europei (Recovery plan, social climate fund, i fondi per le politiche di coesione e il programma InvestEu) e a introdurre forme di finanziamento di scopo, tutti con funzione incentivante. Tuttavia, è anche vero che questi fondi, per l’Italia molto rilevanti, non sono infiniti e la loro destinazione ai fini di efficientamento edilizio potrebbe sottrarre risorse ad altri investimenti altrettanto strategici. È quindi possibile prevedere che, probabilmente, il relativo onere non sarà tutto coperto dallo Stato tramite incentivi a valere su questi fondi, ma sarà in parte coperto con incentivi domestici (che, restando a carico dello Stato si tradurranno in minore spesa pubblica in altri settori o in maggiore pressione fiscale) e resteranno a carico dei privati per l’eccedenza.

Ma non c’è solo questa fonte di preoccupazione, perché molti altri fattori possono incidere negativamente:

  • gli interventi di riqualificazione energetica più sostanziali richiedono lavori che insistono sulla totalità dell’immobile (ad esempio, la realizzazione di un cappotto termico, la rimozione dei ponti termici e l’implementazione di impianti per la produzione di energia rinnovabile, ad esempio pannelli solari) e per questo, diventano più complicati quando si tratta di condomini;
  • gli immobili conciati peggio sotto il profilo dell’efficienza energetica tendono ad essere localizzati nelle zone periferiche e meno centrali, dove il reddito pro capite è meno elevato. Ciò, potrebbe comportare una distribuzione del complessivo onere squilibrata, in relazione al reddito, risultando più pesante per le fasce più povere della popolazione;
  • inoltre, le tempistiche proposte sembrano molto strette, sollevando il dubbio circa la capacità del settore edilizio di reggere all’urto della domanda. Si è visto, in proposito, quale sia stato l’impatto dell’ecobonus 110% e del bonus facciate (di cui si è parlato altrove in questa rubrica) che ha letteralmente riempito di lavoro il settore e che non è comparabile con il livello di domanda che le disposizioni della bozza di direttiva, se implementata nella sua forma attuale, creerebbero.

Questi problemi, fra l’altro, non sono specifici solo dell’Italia, ma riguardano la maggior parte (se non tutti) i Paesi della Ue. Perciò, sorge spontanea la domanda: è una tempistica stretta perché politicamente si vuole dare l’impressione di un’accelerazione importante nella lotta al cambiamento climatico, ma già sapendo che si concederanno poi proroghe e si tollereranno allungamenti significativi dei tempi di implementazione?

Probabilmente, considerando le prevedibili reazioni avverse di molti Stati membri, oltre che le criticità sopra riportate, la risposta potrebbe essere positiva e, altrettanto probabilmente, i tempi di effettiva implementazione si potrebbero dilatare significativamente. Ciò, anche per l’ovvia considerazione che, se le tempistiche di cui sopra fossero mantenute, il comparto si ingesserebbe completamente, un evento che, se si realizzasse, avrebbe non solo un impatto economico e finanziario, ma anche significative ricadute sociali.

Tuttavia, già la sola pubblicazione di parte dei contenuti della bozza di direttiva un effetto l’ha prodotto: la classe energetica di un immobile, da oggi, influirà maggiormente sul suo valore, perché si è capito che, se si compra un immobile che appartiene a una classe bassa, prima o poi bisognerà spendere del denaro per ristrutturarlo e si sa che, in finanza, i flussi finanziari negativi, per quanto futuri, incidono sempre sul valore attuale di un asset.

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