L’inflazione può determinare un corrispondente aumento dei redditi, con conseguenze dal punto di vista dello scaglione Irpef di riferimento
Il drenaggio fiscale è un fenomeno innescato dall’inflazione, a mente del quale a certe condizioni i contribuenti vengono inseriti in scaglioni di imposta più elevati
In buona sostanza, l’aumento dei redditi che, in taluni casi può essere correlato all’inflazione, può portare alcuni contribuenti a passare, per una parte dei loro redditi, da uno scaglione Irpef più basso ad uno più alto, pur mantenendo un potere d’acquisto costante.
In questo modo, i redditi aumentati, pur non rappresentando un aumento della ricchezza, verranno colpiti da un’aliquota maggiore che inciderà, di conseguenza, sulla pressione fiscale.
A tal riguardo, è opportuno riprendere per esteso l’esempio riportato da Ocpi nel report “Fiscal Drag: cos’è e quanto impatta sui conti pubblici?”: supponendo per il 2022 un tasso d’inflazione al 6 per cento, da cui discende un corrispondente aumento di redditi (non seguito da aumento del potere d’acquisto), un lavoratore con un reddito annuo di 14.950 euro nel 2021, che ricade nello scaglione Irpef per i redditi fino a 15.000 e aliquota al 23%, passerà allo scaglione successivo (redditi compresi tra 15.001 e 28.000), soggiacendo ad un’aliquota al 25%.
Questo meccanismo, che incide negativamente sul contribuente, il quale si vede ricollocato in uno scaglione reddituale più alto che però non è sinonimo di un aumento di ricchezza (stante l’aumento die prezzi a causa dell’inflazione e il mantenimento dello stesso potere d’acquisto), determina un gettito extra per l’erario (definito appunto fiscal drag). Lo Stato, a parità di ricchezza, si aspetterà di ricevere dal medesimo contribuente più di quanto lo stesso ha versato nel periodo di imposta precedente. Il drenaggio fiscale, pertanto, incide positivamente sulle casse dello Stato che preleva dal soggetto più di quanto avesse versato in precedenza, ma incide negativamente sul contribuente, il quale è andato incontro, a causa dell’inflazione, ad un aumento meramente fittizio della sua ricchezza e delle sue entrate.
Ebbene, l’impatto della crisi economica pregressa dovuta alla pandemia unitamente alle ripercussioni – sempre economiche – correlate al conflitto in corso, rischiano di determinare, secondo alcune previsioni un aumento del tasso di inflazione al 6%.
In questi termini, è lecito aspettarsi, oltre ad una contrazione dei consumi e una diminuzione del potere di acquisto, anche un aumento (fittizio) del reddito, da cui discende un incremento della tassazione a scapito del contribuente.