La crisi azzera il vantaggio ottenuto dalle imprese femminili negli ultimi cinque anni. E, mentre si interviene sull’assunzione delle donne, c’è ancora chi resta fuori dal mercato del lavoro
Necessari cambiamenti strutturali in termini di welfare: congedi di paternità, orari flessibili e smart working. Ma, soprattutto, investimenti in formazione
In Italia si contano 1,3 milioni di imprese femminili. Registrato un calo dello 0,29% nell’anno della crisi, pari a 4mila attività in meno
Quali sono i principali ostacoli che le donne, in particolare le imprenditrici, incontrano lungo il loro cammino?
Le imprenditrici possono sia riscontrare delle difficoltà maggiori sia godere di facilitazioni rispetto alle donne che svolgono attività da lavoro dipendente. Quanto alle difficoltà, penso a tutte le mancanze in termini di welfare del nostro Paese. Spesso, per esempio, l’abbandono del luogo di lavoro è legato alle esigenze di cura familiare. D’altra parte credo però che le imprenditrici abbiano anche la possibilità di scegliere che tipo di impostazione dare alla loro azienda, apportando cambiamenti che possano essere vantaggiosi per sé stesse o per le donne che lavorano al loro fianco.
Quali sono i passi da compiere, le soft skill o le competenze tecniche da sviluppare per scavalcare i bias e affermarsi oggi nel mondo del lavoro?
C’è innanzitutto un tema fondamentale da affrontare: la possibilità per le bambine e le ragazze di scegliere liberamente, senza pregiudizi o retaggi culturali, ogni tipo di percorso. Oggi, infatti, registriamo una latitanza delle donne nei percorsi formativi scientifici. Credo che lavorare su questa problematica, a tutti i livelli, rappresenti un investimento imprescindibile per il futuro, perché le aiuterebbe a costruire percorsi più forti e le renderebbe meno soggette a perdite di lavoro o scarse opportunità, tanto più in momenti come quello attuale in cui moltissime ne hanno subito i contraccolpi perché presenti in settori azzerati dalla crisi. Un altro aspetto importante è la consapevolezza di sé, il fatto di non auto-sabotarsi, perché molto spesso le donne pensano di non essere all’altezza e tendono a non proporsi se non ritengono di possedere tutte le skill necessarie. Ma bisogna lavorare anche sulla cultura di riferimento, che sia l’azienda, la famiglia o la società nel suo complesso. Infine, quanto alle più giovani, credo sia importare aprire il più possibile la mente al mondo e uscire dalla propria zona di comfort. Questo aiuta a rafforzare e ad acquisire competenze non solo tecniche ma anche relazionali. E poi fare rete e individuare un buon mentore che possa supportarle.
Cosa può essere fatto ancora dal punto di vista normativo per sostenere la componente femminile della popolazione?
Da un punto di vista legislativo bisognerebbe lavorare innanzitutto sulla chiusura dei gap a livello retributivo, con opportunità, benefici o defiscalizzazioni per le aziende che decidono di intraprendere questo tipo di percorsi. Qualcosa che possa garantire loro dei ritorni immediati. Ma bisogna adoperarsi anche sulla parte legata alla famiglia e alla maternità, aumentando per esempio il numero di posti negli asili nido.
Cosa possono fare, invece, le imprese in termini di investimenti per rendere l’ambiente lavorativo più inclusivo?
L’inclusione non si costruisce da un giorno all’altro ma è il frutto di un processo lungo. Servono policy adeguate, come i congedi di paternità, gli orari flessibili, lo smart working (quando è ben fatto e non tenda a marginalizzare chi ne usufruisce), ma anche riunioni strategiche fissate in orari conciliabili con il work life balance (equilibrio tra vita personale e lavoro professionale, ndr). E poi formazione, formazione, formazione. Credo che la cultura aziendale e la posizione assunta dal vertice su queste tematiche, facciano la differenza. Non dimentichiamoci che purtroppo i bias inconsci spesso portano a non vedere delle grandi opportunità. Dobbiamo lavorare per demolire gli stereotipi perché, se non lo facciamo, mancherà sempre un pezzo e il tema dell’inclusione non farà mai completamente parte della nostra cultura. Oggi i team rischiano di avere un pensiero unico. Ma ci troviamo di fronte a delle sfide che vanno molto al di là del pensiero unico. Abbiamo bisogno di originalità, di creatività, di vedere le cose in modo diverso per poterle affrontare, per trovare soluzioni e per soddisfare anche i nostri clienti. Avere un’azienda che dia spazio alla diversità, di genere, culturale, razziale o di background, consente ai singoli individui di sentirsi più inclusi, più motivati e totalmente focalizzati sugli obiettivi che devono raggiungere. Studi specifici, infatti, rivelano che non solo le imprese ma anche i paesi che puntano sull’inclusione riportano risultati migliori. Sia in termini di turnover che di prodotto interno lordo.
Articolo tratto dal magazine We Wealth di aprile 2021