D’altronde non ci si sarebbe aspettato niente di diverso visto che il quadro normativo regolamentare a livello europeo, tra rischi di “green-washing”, catalogazione dei prodotti finanziari tra “articolo 6, 8 o 9”, e rinvii dettati dal corretto inquadramento della tassonomia, è polarizzato verso la nobile tematica ambientale e sociale. Niente in contrario, non fraintendiamoci, ma si potrebbe fare molto di più introducendo un vero e proprio booster se pari attenzione fosse anche focalizzata sull’ultimo dei profili che caratterizza il mondo Esg: la “G” di “Governance”.
Ma perchè ? e soprattutto come? Iniziamo dal perché.
Insomma, un nuovo cluster il cui investitore possiede bisogni ed esigenze sofisticati plasmati da valori etici le cui azioni devono produrre effetti ad alto o nullo impatto sociale e ambientale, ma comunque non negativi, in quanto intollerante a tutto ciò che possa produrre c.d. esternalità negative.
Lo stato dei luoghi
Ad oggi la finanza sostenibile è incentrata principalmente sui c.d. “use-of-proceed bond/loan” oppure sui c.d. “sustainability-linked bond/loan“. Entrambi sono finanziamenti ma hanno modalità di perseguire le finalità Esg in maniera diversa.
Gli use-of proceed sono titoli di debito i cui fondi raccolti sono indirizzati per finalità o allocati su progetti a sfondo Esg. Tra questi basti ricordare i “Green”, “Social”, “Blue” o “Sustainable” bonds a seconda che, rispettivamente, tali proceeds siano indirizzati a progetti/tematiche ambientali, sociali, connesse alle risorse idriche, o ad un mix socio-ambientale.
Con i sustainability-linked, invece, i fondi raccolti non sono soggetti ai vincoli di destinazione dei precedenti (in quanto possono essere utilizzati per le finalità societarie più varie) ma prevedono comunque il perseguimento di predeterminate performance di sostenibilità attraverso l’utilizzo di specifici Kpi.
Ed è proprio la comparazione di questi indici con dei benchmark interni stabiliti dalla stessa società emittente o esterni, indipendenti o non, che fornisce la misura dell’incisività degli obiettivi di finanza sostenibile raggiunti e gli effetti economici connessi: di norma, infatti, questa tipologia di investimenti prevede un aumento degli interessi in favore degli investitori o l’applicazione di penali a scapito della società emittente, se quest’ultima dovesse risultare inadempiente rispetto agli obiettivi Esg attesi.
Ma sia nell’uno che nell’altro caso esiste un fattor comune: il mezzo che permette di raggiungere il nobile fine della finanza sostenibile si concentra nello strumento finanziario utilizzato, ossia il bond o loan, senza però estendersi all’analisi della società emittente o debitrice la quale non è detto che debba essere anch’essa “Esg-oriented”.
Non che sia necessario, in quanto ciò che conta è come sono utilizzati i fondi raccolti e non, se così si può dire, chi li raccoglie. L’importante è infatti il perseguimento di finalità e, soprattutto, la realizzazione di progetti Esg. Ma questo adagio non esclude del tutto il fatto che in un futuro prossimo maggiore attenzione venga rivolta anche al soggetto emittente facendolo divenire non soltanto spettatore ma attore delle politiche Esg. E tutto ciò non può non aver luogo se non attraverso la valorizzazione dello strumento governance.
La G di Governance
Ed eccoci arrivati al come.
La governance di Esg spesso si individua nel termine corporate governance ed in breve copre tutte quelle strutture, principi e processi con i quali una società è amministrata e gestita nonché le relazioni tra management e proprietà. Ma quando una società è “G-oriented” non è ancora cosa facile da comprendere e da misurare nell’universo Esg, anche se qualche riflessione al riguardo può essere avanzata.
Senza entrare troppo nello specifico, si può fare riferimento a tutta una serie di fattori che permetterebbero, in via gradatamente più accentuata, di incastonare i valori della finanza sostenibile all’interno di una società for profit, la quale si ispira ai principi della stakeholders theory.
Secondo tale teoria, infatti, il processo decisionale del management aziendale non deve prendere soltanto in considerazione gli interessi degli azionisti ma anche quelli di tutti i soggetti che ruotano intorno all’impresa, gli stakeholders per l’appunto, e che possono essere destinatari diretti o indiretti degli effetti di tali decisioni.
E gli esempi sul punto sono molteplici. Si può partire dalla “Corporate Social Responsibility” (o Csr) con la quale la visione strategica d’impresa integra gli obiettivi di business all’impronta sociale e ambientale, ossia all’impatto che questa ha nei confronti dei propri stakeholders, o portatori d’interesse, tutti inclusi. Sino ad arrivare all’identificazione del più puro fine ultimo dell’impresa, il c.d. corporate purpose (o “raison d’être“), che da una logica del profitto, sempre presente, muove il suo scopo nella creazione di valore per i tutti i suoi stakeholders. Una sorta di vision, incastonata statutariamente, la cui mission rientra a pieno titolo nella strategia aziendale.
Ma forse esiste un modello dove tutti questi fattori raggiungono la loro massima espressione andando a costituire un connubio perfetto per gli investimenti di finanza sostenibile: le benefit corporation (c.d. b-corp) o società benefit (Sb).
Ed è proprio questa nuova frontiera del profitto – derivante, direttamente o indirettamente, dal beneficio comune e dalla tutela degli stakeholders – che permetterebbe di sposarsi appieno con il parametro di misurazione Esg. Infatti, è la stessa società a perseguire il fine della sostenibilità (e non un suo prodotto finanziario che invece vi dovrebbe rientrare di conseguenza), e la sola “etichettatura” Sb permetterebbe a priori di riconoscere una identità che già nella sua genesi è in linea con le finalità “Environmental“, “Social” ma soprattutto “Governance“.
Anzi, a dirla tutta, quello della società benefit è proprio un tipico esempio di come la G di Governance possa costituire il mezzo in grado di far comprendere, sotto un unico veicolo, anche le altre finalità socio(e/o)ambientali proprie della finanzia “bio”.
Quindi “to b or not to b” ? È questo il dilemma.
À la prochaine !!!