Concluso il G20 tenutosi a Venezia, We Wealth ha intervistato il Professor Carlo Pelanda per fare il punto su alcune delle principali questioni oggetto del forum, tra cui carbon tax e global minimum corporate tax
Carlo Pelanda è Professore di Economia e Geopolitica economica presso l’Università Guglielmo Marconi di Roma
Gli incontri del G20 di Venezia, infatti, non hanno fatto altro che consolidare, ancora di più, l’intesa già raggiunta da 130 Paesi in sede Ocse, all’inizio di luglio.
Ebbene, anche in ragione dell’ampio consenso raggiunto, si può affermare che il progetto tratteggiato dall’Amministrazione Biden, benché ancora in stato embrionale, appare destinato a segnare un passaggio epocale nell’ambito della fiscalità internazionale.
L’iniziativa Usa, continua Pelanda, ha un doppio obiettivo: da un lato, “mira a fare cassa per il fisco, tassando le aziende che hanno dirottato all’estero capitali” e, dall’altro, “ambisce ad alleggerire la pressione fiscale sui grandi gruppi Usa (soprattutto tecnologici) che, dopo anni all’estero, saranno incentivati a localizzarsi in territorio statunitense”.
In questi termini “non deve certo stupire che anche la Cina abbia deciso di sposare il progetto americano della minimum corporate global tax”, sottolinea Carlo Pelanda. Anche la Repubblica popolare cinese, infatti, beneficerebbe di questo “ombrello legale, efficace a livello mondiale”. Del resto, la Cina al pari – se non in misura maggiore – di altre amministrazioni, “ha assistito negli ultimi anni ad una sempre più intensa migrazione dei grandi gruppi fuori dai confini”.
È del tutto normale che alcuni Paesi – specie quelli che hanno fatto della loro capacità di attrarre capitali esteri la principale strategia di sopravvivenza economica – osteggiano l’introduzione di un’aliquota fiscale minima a livello internazionale. Ma, la circostanza che le più grandi potenze mondiali, quali Cina e Usa, sono allineate nel voler ridurre le aree di elusione fiscale, rende politicamente irrilevanti le rimostranze sino ad ora manifestate; ad esempio, dall’Irlanda.
È bene però non cedere all’illusione di credere che l’introduzione di un’aliquota minima sia sufficiente per risolvere il problema del profit shifting da parte delle imprese o, al contrario, per arginare il fenomeno della race to the bottom degli Stati che ambiscono ad attrarre gruppi esteri.
“Ci saranno sempre, infatti, i modi per dirottare verso giurisdizioni a fiscalità ridotta i capitali e, di conseguenza, ci sarà sempre qualche sistema fiscale più competitivo ove localizzare la propria impresa”. Allo stesso tempo, grazie a questa manovra, c’è da credere, osserva Pelanda, che saranno maggiori i controlli e, con ogni probabilità, le operazioni elusive o borderline “potranno farsi solo nelle piazze finanziarie autorizzate; vale a dire, quelle piazze che godono o godranno di permessi speciali da parte della Cina, degli Usa e dell’Ue”.
In stretta connessione con la menzionata minimum corporate tax, che stando alle stime Ocse potrebbe generare 150 miliardi di gettito annuo, si pone la questione che concerne l’opportunità di disciplinare le grandi trasformazioni: prima tra tutte la transizione ambientale.
Non per caso, il forum dei principali leader del mondo, appena concluso, si è tenuto a Venezia e, non per caso, il comunicato finale del G20 riconosce il carbon pricing come lo strumento necessario nella lotta al cambiamento climatico.
E invero, se sull’aliquota fiscale minima a livello internazionale non sembrano esserci particolari criticità, discorso diverso deve essere fatto per la carbon tax.
In questo caso, infatti, “solo l’Unione sembra particolarmente interessata ad introdurre una soglia minima globale per il prezzo delle emissioni di anidride carbonica. Cina e Usa, al contrario, non sembrano conservare un vero interesse verso la proposta europea”. Del resto, le due potenze mondiali (in particolare la Cina che è dipendente dal carbone) inquinano molto più dell’Europa e, conseguentemente, hanno meno interesse a procedere, a passo svelto, verso la decarbonizzazione.
In questo scenario, molti attori politici e analisti sono concordi nel ritenere che non sarà possibile raggiungere la neutralità carbonica nei tempi sperati.
Può però dirsi che la carbon tax, assumendo a tutti gli effetti il valore di “dazio ambientale”, serve all’Ue per aumentare il suo potere in sede di negoziati con America e Cina. Come osserva il Professor Pelanda, “ventilare la possibilità di applicare una tassa sulle imprese extra-Ue che non rispettano determinati standard ambientali, significa – potenzialmente – escludere detti gruppi, rispettivamente cinesi o americani, da un mercato di 450 milioni di persone”.
La carbon tax, sempre in ottica strategica, “consente all’Ue anche di fare pressione sull’auto elettrica. Interesse nazionale della Germania”. Nazione questa che ricopre – e probabilmente ricoprirà – il ruolo di guida geopolitica dell’Unione.
Allo stesso tempo, occorre prestare attenzione ad alcuni profili di rischio. L’Ue, infatti, è il continente che più di tutti è dipendente dall’export. Inoltre, numerosi Stati membri, Germania in testa, hanno rapporti consolidati con la Cina.
In questi termini, se è utile “usare la carbon tax come arma morale”, dunque come raffinato strumento politico finalizzato a ottenere, a livello Ue, maggiore potere di scambio nei negoziati con le più importanti potenze del mondo, è necessario non inimicarsi partner commerciali essenziali.