Il diritto tributario è chiamato a confrontarsi continuamente, da tempo, con nuove sfide. Basti pensare, da ultimo, all’avvento delle economie digitali, che con la loro capacità di andare oltre rispetto alle giurisdizioni tributarie hanno reso evidente una profonda inadeguatezza dei tradizionali criteri impositivi. Cosa comporta l’introduzione della global minimun tax?.
La tassazione dei grandi gruppi multinazionali
O ancora, e più in generale, si pensi alla tassazione dei grandi gruppi multinazionali, la cui riconduzione a tassazione rappresenta ormai da tempo un tema al centro delle agende politiche e fiscali degli Stati europei e internazionali.
Si tratta di temi che per loro natura necessitano di un approccio inevitabilmente multilaterale, e dunque di una convergenza normativa.
Ciò perché tra le ragioni che – soprattutto in passato – hanno eventualmente consentito a taluni soggeti (digitali o meno) di trarre vantaggi fiscali, vi sono sia le “costruzioni” interne e molto articolate di cui i grandi gruppi spesso devono necessariamente dotarsi, sia i cosiddetti dumping fiscali, ovvero l’utilizzo improprio, nel contesto internazionale (e anche europeo), di norme fiscali particolarmente favorevoli in grado di attirare imprese e investimenti esteri, senza tenere in considerazione l’eventuale pregiudizio di natura tributaria arrecato ad altri Stati.
La global minimum tax: ambito di applicazione in Italia
In questo scenario, il dibattito sulla tassazione dei grandi (e grandissimi) gruppi multinazionali sembra aver raggiunto il punto di svolta con l’introduzione della Global minimum tax, che a partire dal 1° gennaio 2024 trova applicazione anche in Italia.
Cos’è la global minimum tax
Si tratta di un’imposta minima globale in ragione della quale è previsto che i profitti delle imprese siano tassati con un’aliquota minima effettiva del 15%, indipendentemente dalla giurisdizione in cui vengono prodotti.
Più precisamente, se un’impresa registra gli utili in una giurisdizione in cui sono tassati a un’aliquota inferiore, il Paese d’origine potrà applicare un’imposta aggiuntiva fino a concorrenza dell’aliquota minima globale.
Ciò purché l’impresa considerata abbia un fatturato globale superiore a 750 milioni di euro.
Gli obiettivi dell’introduzione della global minimum tax
Aldilà dei profili tecnici del tributo, è chiaro che l’introduzione della misura risponde al raggiungimento di almeno due macro-obiettivi:
- ridurre le possibilità che le imprese multinazionali possano operare in giurisdizioni a bassa o nulla fiscalità;
- arginare la concorrenza fiscale tra Stati, e dunque il fenomeno, a tutti noto, del cosiddetto “dumping fiscale”.
In tal senso, l’Ocse ha stimato che con l’applicazione della global minimum tax le pratiche fiscali che si traducono nello spostamento di profitti in Paesi a ridotta tassazione dovrebbero scendere di circa l’80%, passando dal 36% di tutti i profitti globali a circa il 7%.
E ancora, sempre secondo le stime dell’Ocse, l’introduzione della global minimum tax dovrebbe fungere da deterrente per il trasferimento di profitti in Paesi a fiscalità privilegiata.
Le nuove frontiere della fiscalità internazionale
L’applicazione dell’imposta minima globale, infatti, presuppone una localizzazione dei profitti nel luogo in cui le multinazionali svolgono attività economiche significative; il che potrebbe essere particolarmente vantaggioso per i Paesi in via di sviluppo, dato che proprio questi ultimi sono i soggetti maggiormente esposti alle pratiche di profit shifting.
Già queste ragioni denotano come la global minimum tax e, in termini più ampi, il Pillar II, costituiscano un approdo dapprima internazionale, poi europeo, e oggi, a partire dal mese di gennaio 2024, anche nazionale, inevitabile.
L’inadeguatezza dei sistemi tributari
Se non altro perché innanzi al profondo mutamento dell’economia che ha caratterizzato gli ultimi decenni, molto più di quanto sia accaduto in altri periodi storici, i sistemi tributari hanno dimostrato in pieno la loro inadeguatezza: basti ricordare che le linee essenziali della tassazione delle multinazionali a livello mondiale risalgono agli studi della Società delle Nazioni degli anni ‘20 del secolo scorso.
Per non pensare, poi, all’integrazione delle economie e dei mercati nazionali cresciuta a dismisura negli ultimi anni, circostanze che hanno posto il diritto tributario internazionale innanzi a stress test diffusi e significativi.
Sicché, in conseguenza di quest’ultimi, anche gli ordinamenti nazionali, e tra questi il nostro, sono stati chiamati a scelte fiscali difficili, perché relative a fenomeni economico-giuridici nuovi (pensiamo, appunto, alla tassazione delle economie digitali).
E proprio la difficoltà di adottare misure impositive uniformi e condivise ha dato vita a un panorama fiscale non di rado disordinato e privo di coordinamento, così favorendo politiche di erosione e di spostamento da un Paese all’altro delle basi imponibili (fenomeno, questo, favorito dall’avvento e dalla diffusione delle economie digitali).
In questa prospettiva, l’elaborazione del Pillar II e l’applicazione di un’imposta minima globale sembrano approdi irreversibili.
Malgrado le profonde complessità (da alcuni studiosi considerate eccessive) che caratterizzano il funzionamento del Pillar II, e nonostante l’applicazione della global minimum tax rappresenti (a detta di taluni) una scelta fiscale al ribasso, è innegabile che per la prima volta la fiscalità internazionale sembra aver trovato maggiore ordine e, soprattutto, uniformazione.
Verso uno scenario economico e fiscale più certo ed equo
Dopo un percorso iniziato con il progetto Base erosion and profit shifting (cosiddetto “Progetto Beps”) di matrice Ocse, il Pillar II e la global minimum tax creano, oggi, uno scenario economico e fiscale più certo ed equo, per diverse ragioni.
In primo luogo, perché paiono essere superate le divergenze – politiche, prima ancora che giuridiche – che hanno caratterizzato il dibattito europeo e internazionale sul tema.
Poi, perché si delinea un quadro impositivo maggiormente coerente con lo scopo essenziale della tassazione moderna, ovvero quell’idea “del bene comune da realizzare”, bene che passa, come noto, anche dall’imposizione fiscale.
In terzo luogo, perché s’introducono misure idonee a contrastare efficacemente il fenomeno della delocalizzazione offshore dei capitali in Paesi a fiscalità privilegiata, limitando quindi la riallocazione dei profitti in eccesso delle imprese multinazionali.
In ultimo, perché trova finalmente spazio e concreta diffusione quel processo di cooperazione internazionale evidentemente preordinato all’omogenizzazione delle singole legislazioni fiscali nazionali, da tempo invocato dalla migliore dottrina.