Le battaglie sui prezzi, come quella che avvenne al vertice Opec di Baghdad nel ’90 tra l’Iraq di Saddam Hussein e il Kuwait possono piacere ovviamente ai Paesi consumatori, ma anche aprire, oggi come allora, prospettive destabilizzanti, non solo per le compagnie petrolifere.
Ci sono lacrime e sangue per tutti: la stessa Aramco, gioiello della corona saudita, è crollata in Borsa. Ma gli scenari più preoccupanti sul fronte politico sono soprattutto in Medio Oriente, dove sono già in corso conflitti tremendi, dalla Siria allo Yemen, e gli arsenali delle potenze regionali sono pieni come mai nella storia.
Gli effetti dei ribassi possono essere prevedibili dal punto di vista economico ma assai più oscuri da quello strategico: se la situazione dovesse perdurare nel tempo, i bilanci di paesi produttori, già in difficoltà per motivi interni e internazionali – come l’Iran sotto embargo, l’Algeria in una fase di transizione assai critica, l’Iraq delle rivolte e la Libia strangolata dalla guerra civi- le – possono subire colpi fatali. In questi paesi il petrolio paga tutto o quasi: dal pane sulla tavola della gente comune ai ricatti di milizie armate che nessuno tiene a freno.
La battaglia sui prezzi si è scatenata tra Riad e Mosca quando i russi hanno respinto i tagli di produzione proposti dai sauditi all’Opec.
Il coordinamento con la Russia aveva rivitalizzato un agonizzante Cartello petrolifero che gli Usa avevano messo alle corde invadendo il mercato con lo shale oil e lo shale gas, petrolio e gas di scisto bituminoso, diventando da Paese importatore a esportatore netto di oro nero.
I sauditi per ritorsione contro Mosca hanno deciso di aumentare l’export di oro nero contando sul fatto che hanno i costi di produzione più bassi del mondo: circa un dollaro al barile. La Russia non vuole mollare la presa perché ha bisogno di incassare, anche se a quotazioni inferiori e, allo stesso tempo, vuole testare la resistenza dei produttori americani che hanno costi più alti e sono in forte crisi di liquidità.
Le compagnie americane dello shale oil con le quotazioni in ribasso sono in coma. Avevano cominciato la loro ascesa nel 2008 quando il costo del barile flirtava con quota 150 dollari, un’enormità che aveva spinto le società a investire a raffica nell’innovazione ma anche a indebitarsi. Già erano entrate in difficoltà nel 2016 quando era cominciato il calo internazionale del greggio e ora non sanno come ripagare i debiti. Insomma a Riad e a Mosca hanno pensato che questo fosse il momento buono per colpire concorrenti pericolosi. Così lo zar Putin è sceso in trincea: Mosca pur di non cedere è pronta a bruciare le riserve del fondo sovrano russo (150 miliardi di dollari) per coprire le entrate mancate se il prezzo del petrolio dovesse scendere stabilmente verso i 30-25 dollari al barile e anche meno. In palio c’è la leadership del mercato dell’energia, non solo quello del petrolio, ma anche del gas, dove la Russia domina le forniture in Europa sia direttamente che tramite l’hub della Turchia di Erdogan.
Ecco perché la battaglia ha risvolti strategici formidabili: si tratta anche di influenzare gli eventi in una vasta area, che va dal Mediterraneo al Medio Oriente fino al Nordafrica: Putin ha basi militari in Siria e punta alla Libia sostenendo il generale Khalifa Haftar. Quando finirà la pandemia, con un’Europa assente e gli Stati Uniti sempre più incerti nell’impegnarsi, il mondo intorno a noi sarà un po’ diverso da come l’avevamo lasciato.