Pochi avranno notato, se non addetti ai lavori o “insider”, il grande rischio corso da molti grandi investitori in private equity a causa dello shock dei mercati del marzo del 2020 che ha causato grande tensione finanziaria (e una potenziale spirale di vendite da “effetto denominatore” che il tempestivo intervento delle autorità monetarie nei vari paesi ha sopito nell’arco di una settimana).
Il rischio di margin call
Il margine nel trading è la parte dei fondi necessaria, il deposito richiesto normalmente da una banca o altro intermediario finanziario, per consentire a un investitore di aprire una posizione a leva, ovvero ottenere un prestito che consente un investimento per un ammontare superiore ai propri fondi, ovvero il margine. Il concetto di margine si applica con la stessa logica al mercato dei derivati, sia quotati che Otc.
L’obiettivo dell’utilizzo del margine nel trading è ovviamente amplificare la redditività delle operazioni. Se un investimento di 100 senza margine in un anno rende il 50% (ovvero consente un guadagno di 50), con una leva 2 (ovvero potendo investire il doppio dei propri fondi – ovvero il margine – e quindi 200) senza considerare per semplicità il costo del finanziamento otterrebbe un rendimento del 100%. È facile intuire come l’effetto di amplificazione operi anche al ribasso in maniera simmetrica portando a eventi di default delle posizioni causanto ingenti perdite, come nei citati casi Gamestop e Archegos.
L’investimento a margine richiede all’investitore il mantenimento costante di un adeguato livello del margine a garanzia del finanziamento concesso dell’intermediario. Movimenti di prezzo del sottostante finanziato (mark to market) in direzione opposta a quella della posizione dell’investitore richiedono integrazioni della garanzia, ovvero chiamate di margine (margin call).
Nel caso Gamestock è stato un rialzo dei corsi azionari la causa delle chiamate del margine che hanno creato i noti dissesti. Lo “short squeeze” ovvero l’attacco operato con acquisti massici operato sul mercato subito dai fondi hedge che avevano costruito delle posizioni ribassiste su titoli Gamestock, prendendone azioni a prestito tramite i propri intermediari (prime broker), ha attivato i meccanismi di margin call che hanno portato a chiusure delle posizioni prese dagli stessi hedge fund con grandi perdite. In uno short, se il prezzo dell’azione sale, l’investitore ribassista deve aggiungere fondi per essere in grado di comprare le azioni che deve consegnare, cristallizzando le perdite (e in alcuni casi esasperandole perché gli acquisti di copertura possono portare ad ulteriori incrementi di prezzo) fino a un possibile default.
Il funding risk nel private equity
Parlare di margin call nel private equity è inappropriato. Le strutture di investimento (ovvero i fondi) di private equity utilizzano leva finanziaria che non è soggetta ai meccanismi di mark to market discussi sopra. Anzi, le strutture sono a prova di mark to market, essendo in gran parte fondi chiusi e per questo non consentendo alterazioni della base di capitale disponibile. Inoltre, è lasciata discrezionalità al gestore (general partner) di chiedere integrazione di investimento agli investitori (limited partner), nei limiti del capitale impegnato contrattualmente (committed capital).
Tuttavia, il parallelo tra funding risk e margin call non è peregrino. Il funding risk sorge nel momento in cui l’investitore non è in grado di fare fronte, con la propria liquidità, alla chiamata di capitale, creando una situazione di tensione finanziaria al fondo. In questa evenienza, l’investitore si espone alle conseguenze di clausole vessatorie previste per il suo eventuale default nel contratto di investimento. Tipicamente, l’investitore in default perde la titolarità dei diritti nel fondo incluse la quota versata. I limited partner in regola, usualmente, hanno la possibilità di ripartirsi la quota di Nav dell’investitore in default coprendo i suoi impegni residui.
Ma come si arriva a situazioni di funding risk, se per un investitore di private equity il suo impegno è prefissato contrattualmente?
Il problema si pone anche in questo caso quando l’investitore (limited partner) ricerca la maggiore amplificazione possibile del rendimento. Il dry powder, ovvero il committed capital non richiamato, è cassa e diluisce i rendimenti. Per questo motivo, gli investitori istituzionali cercano di ottimizzare con tecniche varie la propria esposizione. I general partner danno fiducia all’investitore, credendo al suo “credit standing” nel momento in cui fanno affidamento sulla sua capacità di far fronte alle future chiamate di capitale a vista (tipicamente con un preavviso di 10 giorni) su un arco temporale di norma di 5 anni.
Quello che può succedere, ed è successo, tra gli altri all’Harvard Endowment durante la Grande crisi finanziaria, e stava per succedere di nuovo nel marzo del 2020, è che la cassa “committed” ma non richiamata per il portafoglio non quotato sia investita in altri attivi e che il valore degli stessi collassi a un punto tale da richiedere un riallineamento anche del portafoglio non quotato (che è uscito dai limiti percentuali di asset allocation riducendosi il denominatore, ovvero il totale ), portando a vendite forzate (normalmente a forte sconto) su tutto il portafoglio e cristallizzando le presumibili perdite.
Dovrebbe a questo punto essere evidente come la ricerca della massima redditività del capitale che sfrutta logiche di affidamento (e questo vale anche le per dinamiche di cassa del commitment) e quindi anche implicitamente la leva, espongano l’investitore al rischio di mercato e di margin call, ovvero la ricerca della liquidità nel momento più sfavorevole.