La “Names Rule” prevede che tutti quei prodotti che nel proprio nome includano un focus su una precisa classe d’investimento debbano investire almeno l’80% del valore dei loro asset in quello specifico settore
Stando alla nuova proposta della Sec, i fondi che non rispettano il requisito dell’80% saranno tenuti a conformarsi alla normativa “in modo tempestivo” e, nella maggior parte dei casi, entro 30 giorni
Nuova stretta in arrivo contro l’ambientalismo di facciata, anche nell’etichetta dei fondi. La Securities and exchange commission (Sec) ha proposto lo scorso 25 maggio una serie di emendamenti volti a modernizzare la cosiddetta “Names Rule”, normativa che prevede che tutti quei prodotti che nel proprio nome indichino un focus su una precisa classe d’investimento debbano investire almeno l’80% del valore dei loro asset in quello specifico settore. E che, nelle parole del presidente Gary Gensler, presenta lacune che “rischiano di minare la protezione degli investitori”. Compresi quelli che puntano sulla finanza sostenibile.
La proposta della Sec: cosa significa per i fondi
La proposta della Sec, sottoposta a un periodo di feedback pubblico di 60 giorni, estenderebbe la normativa anche a quei veicoli d’investimento che possiedono “caratteristiche particolari”, inclusi quelli nei cui nomi presentino termini come “crescita” o “valore” o che facciano comprendere che le decisioni d’investimento incorporano uno o più fattori ambientali, sociali e di buona governance. Come spiegato da Gensler, inoltre, i fondi che non rispettino il requisito dell’80% sarebbero tenuti a conformarsi alla normativa “in modo tempestivo” e, nella maggior parte dei casi, entro 30 giorni. In terzo luogo, la proposta “aumenterebbe la trasparenza su come i metodi d’investimento di un fondo corrispondano alla sua etichetta” imponendo ai fondi di rivelare tali informazioni. “Negli ultimi due decenni sono successe molte cose nei nostri mercati dei capitali. Con lo sviluppo dell’industria dei fondi, le lacune nell’attuale Names Rule rischiano di minare la protezione degli investitori”, spiega Gensler. “In particolare, alcuni fondi sostengono che la regola non si applichi a loro, anche se il loro nome suggerisce che gli investimenti siano selezionati in base a criteri o caratteristiche specifici. La proposta modernizzerebbe la Names Rule alla luce dei mercati attuali”, aggiunge.
Greenwashing e guerra: che ne sarà dell’Esg
La corsa alla sostenibilità dei gestori di fondi Esg, i cui asset sono cresciuti del 53% su base annua a 2,7 trilioni di dollari nel 2021 secondo Morningstar, si inserisce infatti all’interno di un dibattito più ampio lungo quella “linea sottile tra flessibilità e ambiguità” di cui parla il Financial Times in una recente analisi che vede i più critici mettere in discussione le credenziali ambientali dei prodotti “verdi”. Senza dimenticare poi l’impatto della guerra russo-ucraina sul settore, che costringe aziende, investitori e governi a porre la “e”, la “s” e la “g” dell’acronimo l’uno contro l’altro. Al punto che c’è chi si chiede se il termine “Esg” abbia ancora un significato. “L’acronimo confonde almeno due aspetti”, dichiara al quotidiano economico-finanziario britannico Ian Simm, fondatore e amministratore delegato di Impax asset management. “Una è una valutazione obiettiva intorno ai rischi e alle opportunità. E l’altra riguarda i valori o l’etica. E così le persone si fanno legare perché non hanno le idee chiare su cosa sia esattamente l’investimento Esg”. Secondo Simm, in realtà, l’acronimo potrebbe essere prossimo alla pensione. “Penso che dovremmo ridurre o addirittura smettere di usare la parola Esg”, dichiara l’ad. “Dovremmo spingere molto affinché le persone siano chiare su ciò che vogliono quando la usano. In un mondo ideale, l’Esg scomparirebbe come acronimo. E troveremmo un modo migliore per etichettare la conversazione”.
Dall’altro lato della medaglia, tuttavia, c’è anche chi sostiene che il contesto geopolitico attuale possa rappresentare un’opportunità per ridefinire cosa significa investire in modo sostenibile. “La guerra dovrebbe essere considerata un’evoluzione per l’Esg, piuttosto che confondere le acque”, osserva Sonja Laud, chief investment officer di Legal & General investment management. “Potrebbe non essere l’ultima volta che dobbiamo riconsiderare il quadro di ciò che rende un investimento sostenibile”. Difesa, energia e rischio sovrano “non sono argomenti nuovi”, aggiunge, ma “sono stati posti sotto i riflettori a causa di questi eventi”. La difesa, in particolare, sembra essere una delle sfide più immediate. Dopo che per anni diverse banche e investitori in tutta Europa si sono rifiutati di sostenere le società attive nel settore perché contrarie alle loro politiche Esg, il conflitto nell’Est Europa ha spinto per esempio la Seb (gruppo finanziario svedese con sede a Stoccolma) a cambiare tono. Dal 1° aprile, infatti, sei fondi sono stati autorizzati a investire nel settore della difesa. E la banca ha dichiarato di aver iniziato a rivedere la propria posizione a gennaio a seguito delle “crescenti tensioni geopolitiche” culminate poi nell’invasione dell’Ucraina.
Parallelamente, il conflitto ha fatto salire alle stelle anche le compagnie petrolifere e del gas, mettendo a sua volta a dura prova gli investitori responsabili. Vanguard, per esempio, ha dichiarato di aver rifiutato di interrompere nuovi investimenti in progetti legati ai combustibili fossili o il suo sostegno alla produzione di carbone, petrolio e gas. BlackRock, invece, ha annunciato a inizio maggio che probabilmente avrebbe votato contro la maggior parte delle risoluzioni sul clima. Attirando tra l’altro le critiche di diversi attivisti che temono che la mossa della società d’investimento possa indurre altri investitori ad allentare la presa nello spingere le aziende a ridurre le emissioni di carbonio. Stando ai critici, nel contesto attuale gli investimenti nei combustibili fossili sono semplicemente troppo redditizi per essere ignorati dagli investitori.