Il piano della task force Colao intitolato “Iniziative per il rilancio dell’Italia 2020-2022” ha reso in questi giorni di estrema attualità il tema della regolarizzazione dei capitali illecitamente detenuti all’estero (la proposta, complice il suo stato poco più che embrionale, parrebbe escludere la regolarizzazione di beni esteri diversi dal denaro e dagli investimenti agevolmente liquidabili) e del denaro contante detenuto in Italia, riveniente da redditi non dichiarati.
Infatti, tra le iniziative per il rilancio dell’economia del Belpaese spicca la riproposizione della “
voluntary disclosure”, sebbene con talune caratteristiche del tutto differenti da quanto previsto dalle sue passate edizioni, prima fra tutte – per lo meno è ciò che emerge dalle indiscrezioni trapelate – l’istituzione di vincoli al re-investimento dei capitali emersi (ad esempio, in
social bond) per un periodo temporale minimo che andrebbe ad aggiungersi al pagamento di un’imposta sostitutiva ad aliquota mite.
Tale opportunità sarebbe accolta molto favorevolmente, per molteplici ragioni.
Innanzitutto, una riedizione della voluntary disclosure consentirebbe all’Erario di soddisfare le proprie esigenze di gettito, scongiurando, per la generalità dei contribuenti, l’introduzione della temuta “patrimoniale”.
Come è noto, il risparmio privato in Italia è tra i più elevanti in Europa, ragion per cui l’introduzione di un ulteriore prelievo forzoso sui depositi bancari italiani (non andrebbe dimenticato, infatti, che esso si cumulerebbe con quelli già esistenti) potrebbe essere interpretato quale unico “rimedio” alla crescita del debito pubblico nostrano, soprattutto in un contesto come quello attuale ove l’economia, duramente colpita dalla pandemia covid-19, non può pressoché nulla contro l’esplosione del rapporto deficit/pil.
Non solo: prescindendo dalle ragioni erariali, la nuova
voluntary disclosure consentirebbe – dietro il versamento di una ragionevole imposta sostitutiva – di rimuovere uno dei maggiori ostacoli frappostisi in passato alla definizione dei rapporti con l’amministrazione finanziaria, ovverosia la regolarizzazione del contante. Misura molto attrattiva nel nostro Paese, visto e considerato che l’Italia è una economia “
cash based”, tra le prime in
Europa per densità di circolazione di denaro contante; al punto da rendere quasi banale la connessione fra tale uso e l’economia sommersa (altro primato nazionale) e, quindi, da obbligare i contribuenti a fornire la prova (diabolica) circa il
“fatto” generatore delle movimentazioni sui conti o delle giacenze rinvenute (reddito o liberalità?) e l’
anno di formazione. In mancanza, l’imposta sarebbe stata dovuta in misura progressiva, oltre a sanzioni e interessi, essendone presunta la fonte in redditi non dichiarati, conseguiti in periodi d’imposta ancora accertabili.
Ben si comprende come l’ipotesi di applicazione di un’imposta sostitutiva (ragionevolmente nella misura del 10%-15%, come si ipotizza) presenterebbe sicuramente un maggiore appeal, quantomeno con riferimento al contante.
Altra questione, per il buon esito di tale nuova voluntary disclosure, se confermata, riguarderà l’ampiezza e, ancor prima, la presenza di uno “scudo penale” per i capitali oggetto di regolarizzazione, dando per assodato che lo stesso vada circoscritto, per ragionevolezza, ai soli illeciti di natura tributaria. Ovviamente, anche tale aspetto non è di poco conto e, laddove dovesse essere recepita la proposta della task force di Colao, si dovrà valutare attentamente tale regime premiale e i relativi presupposti ed effetti sul contribuente.
Il piano della task force Colao intitolato “Iniziative per il rilancio dell’Italia 2020-2022” ha reso in questi giorni di estrema attualità il tema della regolarizzazione dei capitali illecitamente detenuti all’estero (la proposta, complice il suo stato poco più che embrionale, parrebbe escludere la…