La prima emissione di debito comune che la Commissione europea ha proposto agli investitori istituzionali per finanziare il Next Generation Eu (Ngeu, noto in Italia anche come Recovery fund) era stata salutata, da alcuni, come una pietra miliare nell’integrazione europea. Non era la prima volta che veniva emesso debito garantito da tutta l’Ue, ma la scala di questo evento non aveva precedenti, con un’autorizzazione a chiedere al mercato fino a 750 miliardi. Semplificando molto, queste emissioni di debito comune sarebbero potute diventare il prototipo per una capacità di spesa collettiva di tipo “federale” che avrebbe consentito all’Unione di finanziarsi a condizioni più favorevoli, rispetto a quanto avrebbe potuto fare la somma dei singoli Stati. In questa logica, l'”eurobond” sarebbe potuto diventare il nuovo asset sicuro (“safe asset“) di riferimento per un futuro budget comune. Stranamente, però, i bond del Ngeu nelle scadenze a breve termine, entro i 2 anni, presentano rendimenti superiori a quelli dei titoli di Stato spagnoli e ancor di più rispetto a quelli francesi: entrambi, però, hanno un rating più basso rispetto alle emissioni comuni Ue – rispettivamente A e AA contro AA+ (giudizio di S&P; le altre agenzie valutano il debito Ue con la tripla A).
Un rating eccellente non è tutto
I titoli che fanno riferimento a un emittente sicuro, che gode del rating massimo, dovrebbero offrire rendimenti più contenuti. Se questo non avviene, significa che gli investitori stanno attribuendo un rischio superiore a quello che comunicherebbero i soli dati relativi alla solvibilità (eccellente) dell’Unione europea. Eppure, titolo Ngeu era stato assorbito con grande eccesso di domanda, prevalentemente da gestori di fondi, banche e altri investitori istituzionali (non è accessibile per le famiglie).
Una possibile spiegazione per questa anomalia potrebbe avere a che fare con la transitorietà dei programmi cui la gran parte degli eurobond sono collegati, come lo stesso Next generation Eu: una prova della sfiducia nel fatto che un vero mercato dei “titoli di Stato Ue” potrà mai decollare. Quello dei rendimenti non proprio da safe asset deli eurobond resta, comunque, un argomento di vivo interesse accademico.
Secondo il ricercatore della Columbia University di New York, Giovanni Bonfanti, il cui lavoro di approfondimento tocca direttamente questa materia, “il maggior rendimento richiesto per i bond emessi dall’Unione europea è dovuto a un insieme di fattori difficili da analizzare separatamente”, ha dichiarato via email a We Wealth.
“Esiste sicuramente la tematica della liquidità di questi strumenti”, ha aggiunto Bonfanti, “che sono in genere caratterizzati da bassi volumi di scambio e la cui novità sul mercato (soprattutto per quanto riguarda Ngeu) non aiuta”.
“Inoltre, il fatto che la Commissione Europea sia legalmente obbligata a ripagare tutti i bond Ngeu entro una data specifica (2058, a meno di un accordo politico che ne estenda la durata) diminuisce l’incentivo per le istituzioni private ad investire nella creazione di un’infrastruttura per la gestione di questo mercato”, ha proseguito il ricercatore della Columbia University, “questo si lega anche alla minore attrattiva per gli investitori istituzionali (che è sia causa che effetto), i quali hanno scarso incentivo ad entrare in un mercato poco liquido e sconosciuto ai più”.
Un’opinione condivisa anche da Francesco Saraceno, vicedirettore di Dipartimento presso l’Observatoire français des conjonctures economiques (Sciences-Po, Parigi). “Un eventuale eurobond in almeno parziale sostituzione dei sovrani non dovrà competere [con essi] come deve farlo oggi che è esclusivamente aggiuntivo”, ha dichiarato Saraceno a questo giornale, “forse, in particolari congiunture come quella attuale non c’è spazio per eurobond più titoli sovrani della dimensione precedente. Ma se gli eurobond andranno in parte a rendere inutile l’emissione di sovrani il problema non ci sarà”.
Le opinioni dei due esperti divergono sul fatto che gli investitori istituzionali continuerebbero a preferire le emissioni sovrane “di casa”, con banche francesi più benigne verso i titoli di Parigi o banche spagnole più propense a finanziare Madrid. Secondo Saraceno un preferenza specifica, ove ci fosse, sarebbe puramente irrazionale.
Per Bonfanti, “le banche nazionali poi hanno da sempre avuto un occhio di riguardo per i titoli di Stato del proprio paese e questo vale in particolare per le banche italiane, che beneficiano di un ampio e liquido mercato di titoli sovrani ad alto rendimento”.
Complessivamente, si può concludere che la domanda raccolta dai titoli emessi dalla Commissione europea “non appare particolarmente favorevole al momento e l’emissione non beneficia pienamente del rating elevato“, ha aggiunto Bonfanti che lo scorso dicembre aveva sollevato il tema in un blog post pubblicato sul sito del think tank Bruegel. In seguito la stessa Commissione europea avrebbe preso più coscienza del problema, provando a mitigarlo consolidando “l’emissione dei diversi programmi usando un unico nome EU-Bonds”.
Guardando al futuro, però, la confidenza sul fatto che le emissioni di debito comune sopravviveranno al Next generation Eu è ancora vacillante. Buona parte dei Paesi del Nord ritiene l’esperienza del Recovery straordinaria, come lo è stata l’emergenza pandemica. “Il vero problema degli eurobond“, ha concluso Saraceno, “è come farli evitando la mutualizzazione del debito“, ossia il fenomeno che caricherebbe sulle spalle dei Paesi meno indebitati anche i debiti, relativamente più elevati, degli altri membri. Le proposte per riuscirci ci sono, ma è una storia ancora da scrivere a livello politico.