Con la mossa di Mosca nel Donbass, i prezzi energetici hanno continuato a correre; nuove sanzioni Occidentali andrebbero ad ampliare ulteriormente questo trend, alimentando l’inflazione anche nel prossimo futuro
“La Bce ha sempre segnalato che un aumento dei tassi non dovrebbe avvenire se non poco dopo la fine degli acquisti di obbligazioni”, ha detto il governatore della banca centrale austriaca Holzmann, aggiungendo che sarebbe favorevole a procedere con il primo rialzo dei tassi prima della fine del Qe
La situazione in Ucraina, con il riconoscimento russo delle due repubbliche del Donbass, difficilmente potrà giustificare a breve un ritiro delle sanzioni che l’Europa e gli Stati Uniti hanno messo in campo. Piuttosto, lo scenario potrebbe deteriorarsi ulteriormente, con nuove mosse ostili da parte della Russia cui seguirebbero nuove e più dure sanzioni o un confronto militare vero e proprio.
Per l’Occidente procedere con sanzioni in grado di colpire le imprese energetiche russe sarebbe un’arma a doppio taglio. Da un lato, danneggerebbe uno dei settori più redditizi per Mosca. Dall’altro, ridurrebbe l’offerta di petrolio e gas disponibile sui mercati, spingendo ulteriori rincari. La Russia produce il 10% del greggio globale e pesa per oltre un terzo sulle forniture di gas in Europa; Italia, da parte sua importa da Mosca quasi il 35% del gas (il dato è del 2019). Inoltre, colpirebbe di riflesso numerose società energetiche europee e americane che collaborano con le omologhe russe in importanti progetti estrattivi, fra cui Shell, Exxon Mobil, TotalEnergies e Bp, che possiede una quota del 20% nella oil company russa Rosneft. Questo scenario imporrebbe ai Paesi europei di dare fondo alle proprie riserve strategiche, per ridurre l’impatto della crisi, una mossa cui si ricorre solo in scenari estremi.
Verosimilmente, l’Europa dovrà fare i conti con prezzi energetici più elevati del previsto nel prossimo futuro, accrescendo ulteriormente la pressione sulla Bce, che finora non ha alterato la rotta del ritiro degli stimoli monetari né esplicitamente fatto riferimento a un vicino rialzo dei tassi. A esprimersi con toni da falco, però, sono stati alcuni membri del board nel corso delle ultime settimane.
Dopo i presidenti della Bundesbank e della banca centrale olandese, l’ultimo ad aver evocato un rialzo anticipato dei tassi è stato Robert Holzmann, governatore della banca austriaca, in un’intervista pubblicata il 22 febbraio dal giornale svizzero Nzz.
“Per quanto riguarda le prospettive dei tassi di interesse, la Bce ha sempre segnalato che un aumento dei tassi non dovrebbe avvenire se non poco dopo la fine degli acquisti di obbligazioni“, ha detto Holzmann, “ma sarebbe anche possibile fare un primo passo dei tassi d’interesse in estate prima della fine degli acquisti e un secondo alla fine dell’anno. Io sarei favorevole a questo”. Secondo Holzmann imprimere una svolta sui tassi della Bce darebbe un “importante segnale” ai mercati.
Si tratta di affermazioni decisamente più forti rispetto a quelle pronunciate dalla presidente della Bce, Christine Lagarde, che ha sempre ribadito come il rialzo dei tassi non dovrebbe essere deciso sulla base di un’inflazione trainata da elementi fuori dal controllo degli attori economici come i rincari energetici. Lagarde, come avevamo approfondito in un precedente articolo, ha richiamato l’attenzione sull’andamento dei salari in Europa – ben più contenuto di quanto non si osservi nel Regno Unito o negli Stati Uniti.
“Se i prezzi dei prodotti alimentari o dell’energia dovessero aumentare ulteriormente e aggiungersi alle pressioni inflazionistiche a breve termine”, ha dichiarato al Financial Times il capo economista europeo di Nomura, George Buckley, “la Bce e la Banca d’Inghilterra dovranno chiedersi se ciò avrà un effetto maggiore sulle aspettative di inflazione e sui salari, o un effetto al ribasso sui redditi reali, sulla fiducia, sulla spesa e quindi sull’inflazione a medio termine”. Considerando che una riduzione dei redditi reali dovuta ai rincari energetici comporterebbe una riduzione dei consumi e dell’attività economica, anche questo secondo scenario non appare particolarmente favorevole alle prospettive degli utili societari, e quindi alle sorti dei mercati a breve termine. Anche al netto di eventuali rialzi dei tassi anticipati da parte della Bce.
Le ripercussioni di questo outlook piuttosto negativo sono già visibili dagli indicatori di mercato in grado di tastare gli umori dei trader. Da inizio anno, “l’indice della paura” Vix, che rappresenta il timore di ribassi sull’S&P 500 nei successivi 30 giorni, è cresciuto del 68% portandosi a quota 27,94, il 23 febbraio. E’ un livello che indica un’allerta massima. Parallelamente, l’oro, il bene rifugio per eccellenza, ha recuperato la scena come una delle migliori asset class da inizio anno (+3,62%). Questo è avvenuto indipendentemente dal fatto che i rialzi dei tassi, in arrivo da parte della Fed, riducono l’attrattiva del metallo giallo, che non premia i possessori con nessun tipo di rendimento.