Le norme adottate unilateralmente dagli Stati membri costituivano uno strumento di agevole adozione per contrastare fenomeni di riorganizzazioni societarie con finalità elusive. Tuttavia, già da subito, erano evidenti le limitazioni alla loro efficacia nel perseguimento di tali finalità, per lo più riconducibili alla disomogenea applicazione di tali precetti da parte dei singoli Stati.
In questa sede, in cui si intende circoscrivere la dissertazione ai modelli di Cfc contemplati dalle direttive comunitarie, si può certamente affermare che il primo tratto caratterizzante le norme comunitarie attiene agli obiettivi perseguiti, che sono rappresentati dalla necessità di scongiurare le pratiche di iniqua erosione della base imponibile e di evitare l’arbitrario spostamento del reddito imponibile tra società appartenenti allo stesso gruppo, dislocate in giurisdizioni differenti.
La direttiva Atad 1 si poneva l’obiettivo di impedire la frammentazione del mercato e di disincentivare i disallineamenti e le distorsioni del mercato dettando disposizioni di carattere generale e affidando agli Stati membri il compito di dare attuazione a tali obiettivi comuni. Gli Stati membri erano tenuti ad adottare entro il 31 dicembre 2018, le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per dare attuazione alla direttiva Atad 1 in tema di Cfc con decorrenza a decorrere dal 1° gennaio 2019. Occorre rilevare che non tutti gli Stati membri hanno tempestivamente implementato il dettato della direttiva Atad 1 ovvero hanno introdotto regole Cfc non in linea con il livello minimo di protezione richiesto dalla direttiva. Con riferimento ad alcuni Stati membri, tra cui la Germania, sono state aperte procedure di infrazione che risultano ad oggi tuttora pendenti.
Di seguito, si fornisce una sintetica descrizione dei due modelli (opzionali tra di loro) a cui gli Stati membri sono tenuti a conformarsi sulla base della direttiva Atad 1 e il riferimento alle scelte o alle preferenze dei Paesi membri per l’uno piuttosto che l’altro modello.
In via preliminare, si osserva che il carattere comune di tutti i regimi Cfc attiene alla imputazione dei redditi della società controllata estera in capo alla controllante residente, una volta riscontrata la sussistenza delle caratteristiche delineate dall’art. 7, par. 1 della direttiva Atad 1 che consentono di definire la società controllata estera come Cfc. Tali caratteristiche riguardano un livello di partecipazione diretta o indiretta di oltre il 50% dei diritti di voto ovvero il possesso diretto ovvero indiretto di oltre il 50% del capitale o il diritto di ricevere oltre il 50% degli utili di tale entità e un livello di tassazione della controllata inferiore alla metà di quella a cui sarebbe stata assoggettata qualora fosse stata residente nello Stato membro del soggetto controllante.
Una volta stabilite le condizioni al cui verificarsi una società controllata estera è definita Cfc, l’art. 7, par. 2, lett. a) e b) della direttiva in commento ha fornito agli Stati membri due modelli alternativi cui attingere per determinare quali redditi siano da considerare “Cfc income” e, quindi, imponibili nello Stato membro del soggetto controllante.
Il primo modello di cui alla lett. a) dell’art. 7, par. 2 della direttiva Atad 1 è stato adottato oltre che dall’Italia anche dalla da Svezia, Danimarca, Lituania, Germania, Polonia, Repubblica Ceca, Austria, Croazia, Spagna, Portogallo, Romania, Slovenia e Grecia e si caratterizza per l’approccio mirato a identificare il reddito Cfc con riferimento ad alcune categorie reddituali, tipicamente note come “passive income“, tra cui interessi, canoni, dividendi, royalties e redditi derivanti da attività finanziaria.
Il secondo modello di imputazione reddituale previsto dalla lett. b) dell’art. 7, par. 2 della direttiva Atad 1, è stato scelto da Cipro, Malta, Lettonia, Estonia, Irlanda, Belgio, Lussemburgo, Ungheria e Slovacchia ed è invece incentrato sulla sostanza delle operazioni: sono attribuiti alla controllante quei redditi “derivanti da costruzioni non genuine che sono state poste in essere essenzialmente allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale“.
Bulgaria, Francia e Finlandia non hanno adottato nessuno dei due modelli indicati dalla direttiva e neppure una combinazione degli stessi ben potendo inserire nella legislazione interna misure di protezione diverse rispetto a quelle prescritte dalla direttiva Atad 1 e nel rispetto comunque del livello minimo di protezione che la direttiva Atad 1 mira a garantire.
Oltre a identificare i redditi della controllata estera da imputare per trasparenza alla controllante, la direttiva individua altresì alcune circostanze esimenti, che consentono di disapplicare la normativa Cfc, differenti a seconda del modello prescelto. Il primo modello prevede la possibilità di non assoggettare alla disciplina Cfc la controllata estera che svolga “un’attività economica sostanziale, sostenuta da personale, attrezzature, attivi e locali”, ovvero nell’ipotesi in cui i redditi ottenuti non rientrino per più di un terzo nelle categorie dei “passive income” elencate dalla già richiamata lettera a) del 2 comma dell’art. 7 della direttiva.
Le esimenti previste con riguardo al modello di cui alla lettera b) del 2 comma, trovano applicazione per quei redditi che non possono ritenersi derivanti da costruzioni non genuine poste in essere allo scopo di ottenere un mero vantaggio fiscale. Inoltre, gli Stati membri possono escludere dall’ambito di applicazione del paragrafo 2, lettera b), un’entità o una stabile organizzazione i cui utili contabili non risultino superiori a 750mila euro e per i redditi non derivanti da scambi non superiori a 75mila euro ovvero, ancora, nel caso in cui gli utili contabili non ammontino a più del 10%dei suoi costi di esercizio nel periodo d’imposta.
Per quanto attiene le esimenti, ciascun Paese, con l’eccezione del Belgio, ha adottato o intende adottare misure di esclusione dall’applicazione delle regole Cfc che richiamano quelle illustrate ovvero una combinazione delle stesse ovvero misure di esclusione ancora più severe. Il quadro è alquanto complesso e disomogeneo e se la direttiva Atad 1 ha senz’altro concretizzato l’obiettivo di armonizzare a un certo livello le differenti Cfc rule già in essere negli ordinamenti interni degli Stati membri, tuttavia, alcuni aspetti delle disposizioni (ad esempio, le esimenti) risultano tutt’ora lacunosi e le trasposizioni operate o da operare da parte dei singoli Stati risultano piuttosto variegate, ponendosi in direzione diametralmente opposta rispetto agli obiettivi perseguiti dalla direttiva, ovvero fornire certezza alle società che operano nel contesto comunitario ed evitare effetti distorsivi sul funzionamento del mercato interno.