Solo il 44% dei dirigenti conosce la certificazione di parità prevista dalla Missione 5 del Piano nazionale di ripresa e resilienza, di cui il 34% appartenente al settore pubblico e il 46% al settore privato
Radoccia: “Previsto un esonero sui contributi previdenziali in misura non superiore all’1% e nel limite massimo di 50mila euro annui. L’adesione è su base volontaria e non sanzionatoria per favorire un vero e proprio cambio culturale all’interno delle aziende”
L’applicazione della legge Golfo-Mosca ha prodotto un incremento della quota delle donne negli organi di amministrazione delle società quotate, passata dal 7,4% del 2011 al 36,5% del 2019. La presenza negli organi di controllo è balzata dal 6,5% al 38,8%
A partire dal 1° gennaio 2022 le imprese italiane, almeno in linea teorica, potrebbero ottenere la certificazione della parità di genere. Una sorta di bollino di qualità volto a incentivarle ad adottare policy adeguate a ridurre i gap nelle aree considerate maggiormente critiche, dall’opportunità di crescita in azienda alla parità salariale a parità di mansioni, fino alle politiche di gestione delle differenze di genere e alla tutela della maternità. E che prevede anche uno specifico esonero sui contributi previdenziali. Eppure, secondo una nuova ricerca di EY e SWG, il 56% dei dirigenti non sa cosa sia. E solo il 9% di chi la conosce sta cercando di ottenerla.
L’analisi è stata condotta nel mese di febbraio attraverso una rilevazione online su tre target di riferimento: 514 donne lavoratrici con un’età compresa tra i 30 e i 50 anni, 104 donne impiegate come manager, dirigenti, quadri e imprenditrici e 103 uomini impiegati a loro volta come manager, dirigenti, quadri o imprenditori. Quello che è emerso è che solo il 44% degli intervistati conosce la certificazione di parità prevista dalla “Missione 5” del Piano nazionale di ripresa e resilienza, di cui il 34% appartenente al settore pubblico e il 46% al settore privato. Il 41% sono dirigenti donna mentre il 47% sono uomini. “Questa certificazione, se ottenuta, prevede un esonero sui contributi previdenziali in misura non superiore all’1% e nel limite massimo di 50mila euro annui”, spiega Stefania Radoccia, managing partner dell’area tax & law di EY in Italia. “L’adesione è su base volontaria e non sanzionatoria per favorire un vero e proprio cambio culturale all’interno delle aziende”, aggiunge, sottolineando come si tratti di “un tema cruciale per la crescita del Paese”.
Come ricordato tuttavia da Enrico Gambardella (presidente del Winning women institute) in occasione di
un recente webinar organizzato da Shr Italia,
la norma manca ancora dei decreti attuativi. Ad oggi, precisa Alberto Cirillo di Kpmg su Ipsoa, non sono “state definite le effettive modalità di attuazione e i parametri minimi per il conseguimento di tale certificazione, né le modalità di acquisizione e monitoraggio dei dati necessari al suo ottenimento”. Ma l’effettiva “implementazione e attuazione del sistema di certificazione nel suo complesso dovrebbe, almeno secondo gli ultimi documenti ufficiali della Camera, avvenire nel secondo quadrimestre del 2022”. Intanto, secondo l’indagine EY-SWG,
il 60% dei dirigenti si dichiara favorevole all’introduzione di premi e incentivi per realizzare obiettivi misurabili di parità di genere. Una percentuale che sale al 66% tra le dirigenti donne e al 67% nelle aziende con 25-250 dipendenti.
Oggi nel 68% delle imprese non è presente una reale struttura organizzativa volta a ridurre le differenze di genere e a favorire l’inclusione delle donne. E solo il 21% ne prevede l’adozione nei prossimi anni. Mancano, in particolare, strutture a favore del work-life balance ma nel 70% dei casi non è presente neppure un sistema di monitoraggio dei progressi sulla parità di genere. Un obiettivo, quello dell’uguaglianza tra uomini e donne, che non appare semplice da raggiungere nel breve periodo. Specie ai vertici. Il 17% delle dirigenti donne coinvolte nell’analisi lo ritiene un traguardo irraggiungibile mentre il 37% crede che ci vorranno anche più di 20 anni. Appena il 16% si aspetta che saranno sufficienti meno di cinque anni e il 15% parla di un periodo compreso tra cinque e 10 anni.
Tra l’altro, la promozione di una leadership al femminile rappresenta una priorità soprattutto delle dirigenti donne (nel 35% dei casi contro il 17% degli uomini). Il 49% dei dirigenti uomini, invece, la considera un impegno da assumersi ma non una priorità (a fronte del 36% delle donne). Non manca un 3% di uomini e un 6% di donne che la ritiene una questione irrilevante. In questo contesto, la metà delle lavoratrici riconosce che nella propria azienda non siano garantite le stesse opportunità di carriera e retribuzione a uomini e donne. E le dirigenti al femminile tendono a essere impiegate nel coordinamento di team meno numerosi (meno di cinque persone nel 66% dei casi) rispetto agli uomini (più di 10 persone nel 26% dei casi).
“L’applicazione della legge Golfo-Mosca ha prodotto un incremento della quota delle donne negli organi di amministrazione delle società quotate, che è passata dal 7,4% del 2011 al 36,5% del 2019; la presenza negli organi di controllo è passata dal 6,5% al 38,8%. Tuttavia, non possiamo dare per realizzata la parità di genere nei vertici aziendali: tra le donne che ricoprono ruoli negli organi di amministrazione sono ceo solo l’1,7% nelle società quotate e lo 0,7% nelle banche; ricoprono la carica di presidente il 3,2% in entrambi i casi”, racconta Radoccia. “È necessario imprimere un’accelerazione decisa a un processo di transizione culturale che in altri paesi europei è già avviato”.
Solo il 44% dei dirigenti conosce la certificazione di parità prevista dalla Missione 5 del Piano nazionale di ripresa e resilienza, di cui il 34% appartenente al settore pubblico e il 46% al settore privatoRadoccia: “Previsto un esonero sui contributi previdenziali in misura non superiore all’1% e …