La pandemia potrebbe essere ormai uscita dai pensieri, ma la sua eredità finanziaria è ancora saldamente nel bilancio della Banca centrale europea: con 1.700 miliardi euro di titoli, di cui 292 in titoli di Stato italiani. Sono questi i numeri del programma di acquisto pandemico, noto come Pepp, lanciato dalla Bce nel 2020.
Seguendo la scia di alcune dichiarazioni dei membri falchi del consiglio, la presidente della Bce, Christine Lagarde, ha aperto all’ipotesi che il reinvestimento dei titoli arrivati a scadenza nell’ambito del Pepp possa essere ridotto in anticipo rispetto alla tabella di marcia prevista finora. “Si tratta di una questione che probabilmente verrà discussa e presa in considerazione dal consiglio direttivo in un futuro non troppo lontano e riesamineremo eventualmente questa proposta”, ha dichiarato Lagarde in un intervento al Parlamento europeo del 27 novembre. Al momento, la Bce prevede di reinvestire i titoli arrivati a scadenza almeno per tutto il 2024.
L’eventualità di un ritiro anticipato del Pepp renderebbe più rapida la riduzione del bilancio della Bce, producendo un effetto restrittivo. Allo stesso modo, con minori riacquisti dei titoli arrivati a a scadenza, si lascerebbe più spazio al mercato nella determinazione dei rendimenti. Questo potrebbe ampliare nuovamente gli spread, ossia le differenze di rendimento fra i Paesi più indebitati dell’Eurozona e quelli finanziariamente più solidi.
Appena tre giorni prima dell’apertura di Lagarde era stato il governatore della banca centrale austriaca, Robert Holzmann, ad evocare una riduzione anticipata del Pepp: “Il mio suggerimento”, aveva detto al quotidiano Die Presse, “sarebbe di ridurre i reinvestimenti gradualmente a partire da marzo”. Ancora prima, a metà ottobre, si era espresso in questa direzione il governatore della banca del Belgio, Pierre Wunsch, per il quale “non c’è alcuna logica forte” nel reinvestire i titoli in scadenza per tutto il 2024.
L’apertura di Lagarde arriva dopo che il mercato sembra aver completamente scontato il calo dell’inflazione e la prospettiva che la Bce inizierà a tagliare i tassi nel corso del 2024, forse già nel primo semestre. Questa prospettiva ha già fatto scendere i rendimenti dei titoli governativi dell’Eurozona nelle ultime settimane.
Nel frattempo, il bilancio della Bce ha già da tempo ha iniziato a ridursi e il programma di acquisti App da 3mila miliardi, noto come quantitative easing, dal giugno 2022 ha interrotto i reinvestimenti avviando un processo che potrebbe essere seguito, nei prossimi mesi, proprio dal programma anti-pandemia Pepp.
Per il momento, è andato tutto liscio: gli spread sono rimasti contenuti e la Bce non è dovuta intervenire per ridurli (può farlo attivamente con lo “scudo” Tpi, di cui avevamo parlato qui).
Dall’eventuale anticipo della chiusura del Pepp, “non dovrebbero deriva grandi allargamenti degli spread e visto il lungo termine dei titoli in portafoglio non ci saranno scossoni qualora venisse anticipato il termine dei reinvestimenti a giugno 2024”, ha affermato a We Wealth il consulente fixed income di Finint Private Bank, Giacomo Alessi. “Il piano di alleggerimento del Bilancio della bce è ormai in corso da tempo quindi tali notizie potrebbero destabilizzare sul brevissimo termine ma non nel lungo dove a prevalere saranno molto di più i fondamentali in cui l’Italia non eccelle. L’eventuale anticipazione del termine del Pepp potrebbe influenzare lo spread di 10 punti base ma a nostro parere non cambierà il corso della storia”.
Le incertezze sul 2024, tuttavia, non mancano ed è stata la stessa Bce a descriverle.
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Fine anticipata del Pepp, una sfida da non sottovalutare
Gli esperti di Francoforte, però, hanno fatto capire che il rischio di un nuovo allargamento degli spread nel 2024 esiste; e, in questo scenario, i Btp sarebbero in una posizione particolarmente vulnerabile. Per la Bce, “la capacità degli investitori di assorbire ulteriori emissioni” di titoli di Stato “è fondamentale per il regolare funzionamento dei mercati dei titoli sovrani”, nella consapevolezza che “le condizioni di mercato potrebbero aver risentito della riduzione della domanda di titoli di Stato a seguito dell’interruzione degli acquisti netti (…) da parte dell’Eurosistema alla fine di giugno 2022”, scriveva l’Eurotower nella sua ultima Financial stability review pubblicata il 22 novembre.
“Le prospettive per gli Stati sovrani potrebbero peggiorare in caso di un ulteriore inasprimento delle condizioni finanziarie, che aumenterebbe gli oneri per interessi dei governi, soprattutto per gli Stati sovrani con un elevato fabbisogno di rifinanziamento”, ha affermato la Bce. Non sorprende quindi, che l’Italia risulti, secondo diversi indicatori, fra i Paesi più esposti a questo rischio, data una combinazione di disavanzo e debito particolarmente elevati. Inoltre, la differenza fra i rendimenti di mercato (a fine settembre) del titolo di Stato italiano decennale e i rendimenti medi del debito in essere del Tesoro superava il 2%. Tale divario dà un’idea del“potenziale aumento dell’onere della spesa per interessi in seguito al rinnovo del debito in scadenza”.
Se la spesa per interessi dovesse aumentare in modo significativo per lo Stato italiano, è facile immaginare che questo rischio si rifletterebbe in una richiesta di rendimenti più elevati da parte del mercato. In questo scenario, anticipare la fine del Pepp potrebbe esacerbare un’eventuale aumento dello spread, con ovvie ripercussioni sui Btp.
La Bce, da parte sua, ha fatto notare come nella prima metà del 2023 “il debito pubblico di nuova emissione sia stato finora assorbito senza problemi, nonostante l’assenza di acquisti netti da parte della banca centrale”. Questo è accaduto per la più ovvia delle ragioni: una pluralità di soggetti privati, fra cui famiglie, banche e fondi d’investimento hanno approfittato dei rendimenti più elevati e hanno acquistato più bond. Per i Paesi a basso rating (come l’Italia) la Bce ha fatto notare come l’aumento dei rendimenti attiri in particolar modo più domanda da parte delle famiglie. Tuttavia, se la volatilità sui titoli a basso rating aumenta, famiglie e fondi d’investimento tendono a vendere i titoli e solo “le banche”, in questo scenario compenserebbero con i loro acquisti il calo della domanda osservato in altri settori”. L’iperesposizione delle banche alle sorti finanziarie del Paese in cui operano, però, presenta rischi che gli addetti ai lavori conoscono da tempo.