Secondo un recente studio di Crif-Nomisma il 60% delle aziende presenta un’adeguatezza esg medio-bassa; eppure, le aziende più propense a utilizzare approcci esg nella loro gestione rivelano una rischiosità inferiore del 50% rispetto alla media
Mastroianni: “Le banche investono e concedono finanziamenti a terze parti e nelle loro relazioni di terzo pilastro sono tenute a fornire informazioni in merito alla sostenibilità dei loro investimenti”
Il Pillar III pubblicato dall’Eba a completamento di Basilea III, ed entrato in vigore il 28 giugno 2021, ha introdotto l’obbligo per le grandi banche quotate di fornire al pubblico una panoramica esaustiva sui rischi esg assunti. Un obbligo che si scontra non solo con la difficile reperibilità di dati affidabili e comparabili ma anche con un tessuto imprenditoriale, quello delle pmi italiane in particolare, che fatica a cogliere i vantaggi di quella che Bruno Mastroianni (titolare della divisione bilanci e segnalazioni del servizio regolamentazione e analisi macroprudenziale del dipartimento vigilanza bancaria e finanziaria di Banca d’Italia intervenuto in occasione del webinar Come integrare il rischio esg negli stress test bancari organizzato dal Forum per la finanza sostenibile) definisce come “un’evoluzione positiva nei confronti della sostenibilità”. In Italia, infatti, secondo un recente studio di Crif-Nomisma il 60% delle aziende presenta un’adeguatezza esg medio-bassa; eppure, le aziende più propense a utilizzare approcci esg nella loro gestione rivelano una rischiosità inferiore del 50% rispetto alla media.
Sostenibilità: le regole (europee) per le imprese
“Per affrontare la tematiche dei dati oggetto della disclosure esg, in particolare di quella delle banche, occorre inquadrare da dove siamo partiti e a che punto siamo sul fronte normativo”, spiega Mastroianni. “Da un intervento della Commissione europea sulla rilevazione esg nel 2020 erano emerse tre criticità: l’assenza di uno standard comune di requisiti esg da includere nella dichiarazione non finanziaria (dnf) di diversi soggetti, l’assenza di requisiti stringenti sui dati pubblicati dalle imprese che non ne garantiva l’affidabilità, e infine la possibilità di emanare standard semplificati per le piccole aziende”. In risposta a tali criticità, ricorda Mastroianni, sono state emanate una serie di regolamentazioni. Innanzitutto, la Tassonomia, una classificazione comune a livello Ue delle attività economiche che possono essere considerate sostenibili dal punto di vista ambientale. Poi, la Corporate sustainability reporting directive (Csrd) che “cerca di risolvere le criticità in termini di affidabilità dei dati”, spiega l’esperto, identificando requisiti di informativa comuni e garantendo la comparabilità delle diverse dnf.
Pillar 3 di Basilea 3 sull’informativa esg. Cosa prevede
“Per le banche c’è stata una risposta di carattere ancora più specifico”, interviene Mastroianni. “Così come per i rischi finanziari si richiede alle imprese attraverso l’informativa di terzo pilastro di fornire informazioni al pubblico sul livello di rischiosità degli aspetti finanziari della loro gestione, alle banche viene richiesto di fornire informazioni in merito ai rischi esg assunti, siano essi rischi di transizione o rischi fisici”. Rischi si riverberano anche nel rapporto con le controparti, nel caso degli istituti di credito. “Le banche investono e concedono finanziamenti a terze parti e nelle loro relazioni di terzo pilastro sono tenute a fornire informazioni in merito alla sostenibilità dei loro investimenti”, spiega Mastroianni. Si parla però solo delle grandi banche quotate, almeno per ora. Dal 2025, infatti, anche le altre banche saranno tenute ad adeguarsi.
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Banche: dove reperire i dati di sostenibilità
Ma dove possono reperire i dati per far fronte agli obblighi di terzo pilastro? Ci sono cinque fonti, evidenzia Mastroianni:
- fonti interne;
- dichiarazioni non finanziarie;
- fonti pubbliche (per esempio sul consumo di gas delle controparti);
- data provider, che possono fornire informazioni utili sulla classificazione settoriale delle imprese, anche se potrebbero emergere dei problemi sulla qualità del dato, avverte l’esperto;
- il dialogo con le controparti.
Ed è su quest’ultimo punto, in particolare, che secondo Mastroianni emergono le maggiori criticità. “Quando si tratta di imprese di piccole dimensioni che non redigono la dnf, l’informazione non può che essere richiesta dalla banca alla controparte. Noi, come Banca d’Italia, siamo impegnati a sviluppare questo dialogo tra settore finanziario e non finanziario. Ma le controparti dovrebbero iniziare ad avvertire come beneficio il potere di fornire tali informazioni sulla sostenibilità delle loro attività”, dichiara l’esperto. “La Tassonomia non effettua infatti una classificazione per settori ma per attività. In questo senso, rappresenta un’opportunità per le imprese non finanziarie, che potrebbero essere classificate dalle banche come imprese che migliorano il loro Green asset ratio (Gar, ovvero l’indice dell’Eba che misura il rapporto tra gli asset delle banche che finanziano attività sostenibili dal punto di vista ambientale sulla base della Tassonomia e il totale dei crediti, ndr). E di conseguenza ottenere condizioni di mercato più favorevoli per i loro finanziamenti”.