La democratizzazione dei mercati privati, nonostante strumenti come Pit ed Eltif, resta più formale che sostanziale a causa della scarsa educazione finanziaria dei risparmiatori italiani e della loro limitata propensione agli investimenti di lungo termine, con un impatto significativo sulla crescita della ricchezza pro-capite rispetto ad altri paesi sviluppati. E’ uno degli spunti che Alberto Martini, head of wealth management di Banca Mediolanum, ha condiviso nel corso del Wealth Management Summit organizzato da We Wealth.
A proposito di costi, come sta evolvendo la consulenza finanziaria nel wealth management?
L’evoluzione della consulenza da finanziaria a patrimoniale è una necessità prima ancora che un’opportunità. Oggi si fa ancora molta confusione tra il costo della consulenza finanziaria e il costo dei prodotti finanziari, cosa profondamente sbagliata. Se guardiamo al Regno Unito e all’Olanda, dove il sistema è basato sulle parcelle e le retrocessioni sono vietate, i costi complessivi della consulenza sono addirittura aumentati per lo spostamento dal costo di prodotto al costo della consulenza.
Quali sfide vede per il futuro della consulenza?
Il futuro sarà dimostrare che la consulenza esiste effettivamente e produce risultati attesi. C’è già una contestazione in corso della FCA, l’autorità di vigilanza britannica verso St. James’s Place proprio sulla corrispondenza tra parcelle incassate e servizi forniti [A fine febbraio 2024, St. James’s Place, il più wealth manager del Regno Unito, ha annunciato di aver accantonato 426 milioni di sterline per risarcire i clienti che non avevano ricevuto i servizi di consulenza finanziaria per cui avevano pagato, Ndr.].
Come si può trasformare questa necessità in opportunità?
Quanto più il cliente rimane investito nel lungo termine, tanto più esiste il rischio di una minore interazione. Occorre aumentare l’interazione con i clienti lungo tutto il ciclo di vita, sia dei consulenti che dei clienti stessi. È necessario approcciare il cliente in un’ottica multidimensionale, dove tutto è correlato. La formazione dei banker in pianificazione patrimoniale, budgeting e la disponibilità di servizi integrati come protezione, previdenza e credito diventano fondamentali per servire il cliente nel lungo termine.
Parliamo di democratizzazione dei mercati privati. A che punto siamo?
Al momento è più forma che sostanza. Pir ed Eltif hanno reso più democratico l’accesso ai mercati privati, sia equity che debito, ma sono ancora poco presenti nei portafogli. Il problema non è solo la scarsa comprensione degli strumenti, ma soprattutto l’educazione finanziaria dei clienti. Lo vediamo nella scarsa attitudine del risparmio italiano a rimanere investito nel lungo termine.
Quali sono le conseguenze di questa situazione?
L’impatto sulla ricchezza pro capite è significativo. Negli ultimi 10 anni la ricchezza pro capite italiana è cresciuta solo del 10% rispetto al 150% degli Stati Uniti e al 90% della Germania. Questa scarsa attitudine a rimanere investiti rende gli investimenti illiquidi o parzialmente liquidi ancora per pochi. Tuttavia, quando si parla di mercati privati, bisogna evitare di sostenere due concetti errati: che migliorano la diversificazione e che riducono la volatilità di portafoglio. Utilizzare la teoria di Markowitz per trovare spazio ai mercati privati può portare a un eccessivo peso in portafoglio, data la loro volatilità artificialmente bassa per via delle valutazioni aggiornate in modo tardivo. Anche il tema della maggiore diversificazione è poco convincente, considerando il numero delle partecipazioni rispetto ai mercati quotati.
Quale approccio suggerisce quindi?
È importante vedere questi investimenti nella prospettiva di un approccio multigenerazionale, all’interno di una pianificazione strategica di lungo termine. Prendiamo ad esempio il private equity: oggi, con l’aumento del costo della leva, gli holding period si sono allungati e le exit posticipate. La diffusione dei continuation fund sta rendendo questo mercato, in alcune situazioni, poco trasparente.
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